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Dal ragionamento alla fede

X domenica del tempo ordinario

Gen 3,9-15; Sal 130 (129); 2Cor 4,13-5,1; Mc 3,20-35

Uno degli aspetti più insoliti del (per tanti versi sconcertante) Vangelo odierno è il ricorso da parte di Gesù al ragionamento applicato a un ambito, quello della possessione demoniaca, che si colloca al di fuori della logica razionale. La dialettica impiegata in quella circostanza ha però in se stessa un risvolto paradossale.

A differenza degli antichi esorcisti, Gesù per scacciare i demoni non faceva ricorso a riti codificati, si affidava invece a ordini perentori: «Stai zitto» (Mc 1,25); «Spirito immondo esci da quest’uomo» (Mc 5,89); «Spirito sordo e muto, te lo ordino, esci da costui e non ritornarci più» (Mc 9,25).

Questa differenza qualitativa suscita sconcerto: se qualcuno obbedisce a dei comandi significa che lo riconosce come un’autorità superiore. Proprio questa è la conclusione tratta dagli scribi: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo dei capi dei demòni» (Mc 3,22). Dietro all’accusa vi è dunque un embrione di ragionamento. Anche la risposta è di conseguenza argomentata: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso non potrà restare in piedi (...) Anche se Satana si ribella contro se stesso, non potrà restare in piedi ma è finito» (Mc 3,24-26).

Nella parole di Gesù vi è un risvolto inatteso. Sul piano argomentativo il motivo per il quale egli non scaccia i demòni con l’autorità del loro capo è che se lo facesse con la forza di Beelzebùl il regno satanico sarebbe preda di un’anarchia autodistruttiva. Visto sull’altro versante, ciò equivale implicitamente ad affermare che, nonostante la forza della parola liberatrice, il potere demoniaco, pur subendo delle sconfitte, non ha ancora perso la guerra.

La prova che le guarigioni compiute da Gesù vengono da un altro potere (cf. Mc 1,27) sta, in modo paradossale, nel fatto che la vittoria definitiva non è stata ancora conseguita. Se il campo di Satana fosse stato sbaragliato non saremmo ancora qui a chiedere di essere liberati dal male, vale a dire dal Maligno (cf. Mt 6,13). Quest’ultima interpretazione, filologicamente la più probabile, è stata ripresa di recente anche da papa Francesco:

«Di fatto, quando Gesù ci ha lasciato il Padre nostro ha voluto che terminiamo chiedendo al Padre che ci liberi dal Maligno. L’espressione che lì si utilizza non si riferisce al male in astratto e la sua traduzione più precisa è “il Maligno”. Indica un essere personale che ci tormenta. Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno questa liberazione perché il suo potere non ci domini» (Gaudete et exsultate, n. 160).

«“In verità io vi dico tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi ha bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna”. Poiché dicevano: “È posseduto da uno spirito impuro”» (Mc 3,28-30). Il radicale fraintendimento, in cui la potenza dello Spirito viene scambiata per astuzia diabolica, è presentato come peccato imperdonabile.

Qui non ne va del ragionamento, ne va della fede. La forza di Gesù non si manifesta mai senza la presenza della fede. Qualche capitolo dopo, Marco avrebbe affermato che a Nazaret Gesù non aveva potuto compiere alcun miracolo e «che si meravigliava della loro incredulità (apistia)» (Mc 6,5-6). Si tratta di due facce della stessa medaglia. La fede comporta però sempre una qualche forma di «essere fuori di sé» (Mc 3,21). Vale a dire essa esige che ci si affidi a una forza che non viene da noi e che è opposta a quella della potenza delle tenebre. Scambiare l’una per l’altra equivale a consegnarsi alla perdizione, qualunque cosa questo termine voglia dire.

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