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Culto e giustizia

III domenica di Quaresima

Es 20,1-17; Sal 19 (18); 1Cor 1,22-25; Gv 2,13-25

«La forma del Santuario ricordava quella del leone: larga sul davanti, dove presentava due colonne, e stretta posteriormente» (F. Ephraim): l’immagine è suggestiva ed evoca la maestosa bellezza della costruzione, di cui troviamo un accenno anche nel Nuovo Testamento (cf. Lc 21,7).

          Centro cultuale e non solo, attorno il Tempio si era formata, se non un’ideologia, una sensibilità, di cui il quarto vangelo ci mostra un ulteriore aspetto legato alla persona e al mistero di Gesù.

          Salomone aveva riconosciuto il Tempio come luogo del Nome e soprattutto del popolo, che vi sarebbe salito per pregare e chiedere perdono (1Re 8,29ss), mentre il cielo resta la dimora di Dio (1Re 8,49).

          Saranno i profeti a denunciare l’idolatria del Tempio, il formalismo cultuale e l’avidità di chi lo gestisce (Ger 7,1ss in particolare, ma anche Sal 50), chiedendone la purificazione (in particolare Ez 1-3.40-48).

          Il terzo Isaia ne scopre invece, per così dire, la «vocazione» universalistica di «casa di preghiera per tutti i popoli» (bet tephilla…lekol haʻammim, Is 56,7), legata all’esercizio della giustizia. La percezione del Tempio come «casa di Dio» pare meno originaria e originale rispetto a questi riferimenti.

          Gesù s’inserisce nella linea profetica, sia per la purificazione del Tempio sia per il fatto di riconoscerlo casa di preghiera. Esso è anche «la casa del Padre mio» (ton oikon tou patros mou, v. 16), riconosciuto come dimora divina con un termine non generico.

          Gesù scaccia dunque (il verbo è ekballō, v. 15, che ha varia fortuna nei Vangeli) «tutti» cioè le persone, mercanti e cambiavalute, perché il complemento oggetto è al maschile (pantas), insieme a pecore, buoi. Non si parla delle colombe perché, secondo alcuni interpreti, erano l’offerta dei poveri.

          In questa cacciata si può vedere una polemica antisadducea, perché i gran sacerdoti provenivano generalmente da questo gruppo, collaborazionista coi Romani e ricco. La polemica sarebbe dunque nel più genuino stile dei farisei, che volevano un culto spiritualmente connotato e alieno da profitti.

          A chi gli chiede un «segno» (2,18), Gesù risponde con un gioco di parole complesso: il Tempio stesso è un semeion che deve essere liberato (lusate, v. 19).

          E il Tempio è individuato da due termini: ieron e naos. Il primo si riferisce a tutta l’area cultuale, mentre il secondo è la cella interna (Dalman) dove era custodita, nei templi pagani, la statua della divinità che veniva portata in processione – cella che quindi era considerata l’abitazione del dio.

          Il naos di Gerusalemme, ossia il Santo dei Santi, era per gli israeliti l’ombelico dell’universo e «il luogo» per antonomasia (hamaqom) e, come è noto, era vuoto.

          Gesù parla di sé (2,19) come naos, ovvero del proprio corpo come cella dove il Padre risiede, avviando quel modo di parlare del santuario su doppio registro che ricompare nell’episodio della donna di Samaria (Gv 4,20ss). Ugualmente su un doppio registro sono i verbi «liberate/abbattete» e «rialzerò/ricostruirò» che possono avere senso sia proprio sia metaforico (Schnackenburg).

          La cosa non sfugge a quella parte dell’uditorio che gli è già ostile, tanto che il detto del v. 19 verrà riportato in forma manipolata nel processo di Gesù (cf. Mt 26,61, Mc 14,58) e servirà alla sua condanna.

          L’evangelista poi, citando il Sal 69, apporta una variazione importante. Al v. 10 infatti il verbo «divorare» è al passato in ebraico (̛akalatni) e nei LXX (katephagen): il passaggio da «mi ha divorato» a «mi divorerà» suona come un annunzio della passione. Il che non può che rendere più aspra la polemica e, in certo modo, aggravare la posizione di Gesù che è appena agli inizi del suo ministero.

          Tuttavia al di là della forza del gesto, quello che sta a cuore a Giovanni è la dimensione spirituale del culto, e certamente stupisce che in mezzo a tanto sconquasso né la guardia del Tempio né la guarnigione romana che lo presidiava nelle grandi feste siano intervenuti: questo rafforzerebbe l’ipotesi che si tratti di un insegnamento di Gesù sul culto più che di un episodio storico (Fabris). Un tale insegnamento, dato con toni così realistici, non può che porre alle coscienze l’antico problema del rapporto tra culto e giustizia.

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