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Consolazione e grazia

II domenica di Avvento

Is 40,1-5.9-11; Sal 85 (84); 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8

          L’esordio dell’Evangelo secondo Marco presenta, com’è noto, diversi problemi che possiamo appena accennare. È comunque da sottolineare la relazione tra i vv. 2-3 e le citazioni del Primo Testamento in essi riportate.

          Il redattore marciano evidenzia, citandolo direttamente, Is 40,3, che in realtà è associato a Es 23,20 e Ml 3,1.

          Il principio (arche) dell’Evangelo è dunque un principio antico, dalle profonde radici e tuttavia deve cogliere di sorpresa, come mostra l’imperativo raddoppiato iniziale di Is 40,1 e il termine «ecco» che ricorre nelle citazioni veterotestamentarie (gr. idou, ebr. hinne, e addirittura tre volte in Is 40,9-10).

          La catena narrativa vera e propria comincia in Mc 1,4 con un aoristo (egeneto) e parte appunto da lontano, dall’Esodo e dai Profeti; i versetti precedenti ne costituiscono lo sfondo in senso sintattico e contenutistico, sfondo in cui il senso delle citazioni subisce alcune variazioni rispetto ai testi profetici di partenza. Già da adesso si può anticipare che la vicenda salvifica e il racconto dell’Esodo, trama evidente del Secondo Isaia, lo sono anche per il testo di Marco. Di fatto tutta la vicenda di Gesù è sotto il segno dell’esodo, e ogni evangelista le dà una colorazione sua propria.

          Prendendo ora in considerazione Is 40,3 possiamo già notare uno slittamento di significato. Il profeta parla di preparare una via e di appianare una strada allo scopo di rendere visibile a tutti la rivelazione della gloria del Signore (cf. Is 40,5); Marco collega invece questo invito alla presenza e alla predicazione del Battista, quindi alla conversione, ovvero all’esodo personale che ogni credente è chiamato a compiere, mentre in Isaia il popolo che torna dall’esilio babilonese sta già compiendo il suo secondo esodo verso la patria e verso Gerusalemme.

          Il testo di Isaia è costruito in termini e su simboli sonori. Si apre con una voce fuori campo che annunzia alle sentinelle poste sulle mura della città la consolazione di Israele per la fine dell’esilio. Si parla di peccati, ma non di castigo: la correzione dell’esilio è considerata fin troppo sufficiente (Is 40,2b). Segue una voce che ricorda la caducità umana (v. 6), quasi a bilanciare la visione della Gloria divina. Infine una terza voce, femminile questa volta (mübaSśeret, Is 40,9b), che annuncia la venuta del Dio pastore, forte e premuroso (cf. le voci femminili annuncianti vittoria in Sal 68,12).

          Il termine qol, «voce», ricorre tre volte (vv. 3.6.9) a cadenze regolari e gli fa eco l’aggettivo kol, «tutto/tutta», che compare sei volte (vv. 2.4a.4b.5.6b.6c). La parola «voce», del resto, è determinante per il testo evangelico e risuona nel deserto, da intendersi non come luogo geografico ma come luogo di annuncio, difficile obbedienza, contestazione fino alla ribellione e quindi come ulteriore richiamo al contesto dell’esodo.

          Tradizionalmente s’intende che la voce che grida in Mc 1,3 sia quella del Battista, ma rispetto agli altri evangelisti Marco antepone le citazioni del Primo Testamento, che interpretano gli eventi, all’inizio della narrazione vera e propria, che parte al v. 4. Questa diversa disposizione del testo può far pensare che l’angelo e la voce che grida si possano identificare con Gesù (Katz e Zeni) che dà il suo primo lieto annunzio, distinto dall’attività di battezzatore di Giovanni (v. 4).

          Particolare attenzione merita questa «voce che grida» (1,3), che non può non richiamare il qol di Is 40. Proprio il gridare pare un tratto distintivo di Marco che ritroveremo nel corso del suo racconto con sfumature e significati diversi (ancora S. Zeni, La simbolica del grido nel Vangelo di Marco, EDB, Bologna 2019).

          Notiamo infine che consolazione e grazia sono il lieto annuncio di Isaia e di Gesù. Questa consolazione è una dimensione dinamica.

          Il fatto che il verbo «consolare» di Is 40,1 non sia seguito dalla nota accusativi, che farebbe di ‘ammi, «mio popolo», il suo complemento oggetto, fa sì che nella letteratura midrashica ci sia anche chi interpreta «consolate, consolate, popolo mio» vocativo, anziché accusativo. A dire che il popolo, ricevuta la consolazione divina col ritorno dall’esilio, deve porsi come elemento di consolazione per tutti i popoli, anticipando la linea universalistica del Secondo Isaia.

 

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