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Cibo di popolo

Santissimo corpo e sangue di Cristo

Dt 8,2-3.14b-16a; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58

Si parla spesso di cibo nelle Scritture, e se ne parla pressoché sempre tra memoria e ringraziamento, in particolare quando si tratta del cibo basilare, quello essenziale, pane vino e olio, come ricorda il salmo 104,15. Del resto, basta pensare al paesaggio tradizionale tra Galilea Samaria e Giudea: campi di grano e orzo, ulivi, viti e in più alberi di fichi e melagrane.

Così Dt 8,1ss, di cui già abbiamo incontrato il v. 3 nella prima domenica di Quaresima, ci mette davanti, con una lunga anamnesi dei quarant’anni d’Israele nel deserto, alla realtà del cibo e di quanto è essenziale alla vita.

Ripensando tutto il problema, si può dire che l’uomo ha avuto dapprima solo cibo donato da raccogliere (cf. Gen 1,29, 2,16). In un secondo momento è subentrata la cultura: l’uomo deve non solo lavorare la terra con fatica (cf. Gen 3,17-19), ma imparare anche a trasformarne i prodotti per consumarli al meglio e conservarli. Il cibo, in questo modo, rafforza il legame dello ̛adam con la ̛adama, ma conferma anche il senso di precarietà e caducità della sua vita. Basterà poco perché una carestia lo costringa alla fame.

Il deuteronomista vede nella carestia un’umiliazione e una correzione divina, perché l’uomo capisca che il cibo è comunque donato e che, da figlio, è chiamato a riconoscere il dono e a rendersi conto che il pane, da solo, non basta alla vita, perché l’uomo vive soprattutto di quanto esce dalla bocca di Dio – affermazione in cui è presente un gioco di parole: il sostantivo môcä´, «ciò che esce» (Dt 8,3), è assonante con miṣwa̛, «precetto», ossia «ogni atto che venga realizzato in accordo con il volere di Dio» (A.J. Heschel). Dunque: si mangia ciò che si ascolta, si diventa ciò che si ascolta e si vive agendo ciò che si è ascoltato.

Il nostro testo comunque insiste sulla grazia di cui la manna è un segno eminente e «celeste», tanto che gli israeliti neppure la conoscono al suo apparire (cf. Es 16,14ss). La manna è però anche una prova: non se ne deve raccogliere se non quanto basta. La logica del dono e dell’affidarsi a Dio deve essere vissuta in ogni caso.

Dopo il pane della schiavitù mangiato in Egitto, dopo l’azzimo della liberazione e la manna della pura grazia, arrivati nella terra subentra il pane del libero lavoro, della benedizione e del rendimento di grazie. Il cibo è così non solo un elemento della soteriologia, ma ne è anche un segno sacramentale.

L’esito del percorso salvifico è la vita eterna. Il Figlio, il cui cibo è fare la volontà del Padre e compiere ciò che esce dalla sua bocca, ovvero la più autentica miṣwa̛ (cf. Gv 4,34), si offre a sua volta e liberamente come pane spezzato e vino versato a coloro che vogliono accedere alla sua tavola, portando a compimento il percorso di liberazione e della vita.

Pane e vino sono così portatori di un dinamismo vitale che li supera. Legati alla parola della promessa che si attua nel Figlio, diventano il cibo che va oltre sé stesso.

In quanto cibo connesso alla parola, debbono essere compresi tra memoria, profezia e rendimento di grazie, in costante relazione quindi con le Scritture.

Ripensando l’eucaristia, infatti, è la parola in quanto memoria, profezia e rendimento di grazie che le rende ragione e dice anche che non la si può ridurre a intima e privata devozione, è bensì il cibo di un popolo e ha tutta la sua efficacia nella misura in cui viene poi agito nel contesto sociale in cui si vive, come sacramento di unità, di carità, anticipo del mondo a venire. L’antifona O Sacrum Convivium presenta tutte queste dimensioni in maniera esemplare, valorizzando quella escatologica.

Gv 6,58 ribadisce infatti che, benché la manna fosse scesa dal cielo, coloro che l’hanno mangiata sono morti, questo (cf. touton, v. 58) pane invece ha una dimensione di eternità. È come il sentiero della vita, di cui parla il salmo 16: inizia qui e adesso, ma non se ne vede la fine perché è un sentiero eterno, a dire che la vita non ha un «dopo». L’eternità è già adesso e si decide adesso, passo dopo passo. «Questo» pane decisivo, che è cibo e parola, accompagna il credente in una via di eternità.

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