Amare e voler bene
III domenica di Pasqua
At 5,27-32.40s; Sal 30 (29); Ap 5,11-14; Gv 21,1-19
In Giovanni le azioni compiute da Simon Pietro dipendono dalla voce di altri. All'inizio del Vangelo fu il fratello Andrea a comunicargli: «Abbiamo trovato il Messia – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù» (Gv 1,41-42) che lo fissò e subito gli aggiunse il nome simbolo del suo futuro compito: «“Tu sei Simone, figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa”, che significa Pietro» (Gv 1,42).
La mattina della risurrezione l’annuncio della tomba vuota (ma non ancora del Risorto) gli fu portato da Maria Maddalena (cf. Gv 20,2); dal canto suo, la prima esperienza di fede gli fu testimoniata dal discepolo che Gesù amava (cf. Gv 20,8). Sul lago di Galilea è di nuovo il discepolo amato ad annunciare: «È il Signore» (Gv 21,7). La ripetizione della stessa dinamica secondo cui Simone più che annunciare riceve, a propria volta, l’annuncio è una specie di simbolo del fatto che chi detiene un ruolo preminente è sempre debitore nei confronti degli altri. Pietro ha il «primato», ma non è il primo ad annunciare e a testimoniare la fede.
Sul mare di Galilea Simon Pietro si strinse le vesti e si gettò in mare (cf. Gv 21,7), egli compì un atto volto a giungere da Gesù prima degli altri; non fu però il primo a comprendere che chi aveva dato loro il consiglio di gettare di nuovo le reti fosse il Signore. Nel quarto Vangelo Pietro non è mai una figura isolata. Non lo è neppure nella scena imperniata sulla triplice affermazione del suo amore nei confronti di Gesù (cf. Gv 21,15.16.17), anche in questo caso sullo sfondo si stagliò infatti la figura del discepolo amato (cf. Gv 20,20).
Da sempre la triplice attestazione è stata riconosciuta come una penitente risposta al triplice rinnegamento compiuto da Pietro (Gv 13,38; 18,17.25-27). L’atto di voltare le spalle al Maestro negando di essergli discepolo fu suggellato dall’espressione: «Non [lo] sono (ouk eimi) [nella lettera del testo non c’è il “lo”]»; con essa Pietro, oltre a negare la propria condizione di discepolo, si contrapponeva implicitamente alla formula «Io sono (ego eimi)», con cui nel Vangelo di Giovanni Gesù è solito autopresentarsi (cf. per esempio Gv 4,26; 6,20-35; 8,12.58; 10,7.11; 11,25; 14,6; 15,1). Il misconoscimento parla la lingua dell’antitesi; dicendo «non sono», Pietro rinnega sia Gesù sia se stesso. L’infedeltà ci fa cadere nel regno del non essere.
La triplice affermazione di amore di Pietro nei confronti di Gesù risorto è compiuta attraverso due verbi (agapao e fileo), resi nella versione italiana rispettivamente con «amare» e «voler bene». Le prime due volte vi è una sfasatura (Gesù usa «amare» e Pietro «voler bene»), nella terza l’espressione diviene concorde («voler bene»).
L’amore culmina quando, dopo essere stati messi alla prova, si giunge infine a parlare la stessa lingua. Nel momento in cui si pone al centro l’«altro» si riscopre, anche senza cercarsi, sé stessi. Quanto si è appena detto suona, ed è, vero.
Tuttavia nella scena della triplice interrogazione emerge anche una componente diversa. Non siamo di fronte a una piena reciprocità. Nell’incalzare delle domande non si afferma in modo esplicito la presenza dell’amore di Gesù nei confronti di Pietro. «Amare» (agapao) è verbo più alto di «voler bene» (fileo). Specie nella prima occasione la differenza terminologica indica che la richiesta di Gesù è, in un certo senso, eccessiva ed è forse per questo che è formulata in modo comparativo: «“Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. Gli rispose: “Certo, Signore, tu sai che ti voglio bene”» (Gv 21,15). Pietro non risponde di amare più degli altri, dice semplicemente di voler bene al Signore. La seconda volta Gesù ricorre di nuovo al verbo «amare», ma cancella il «più di costoro».
Da ultimo il Risorto assume in tutto e per tutto il linguaggio usato da Pietro fin dal principio: «Mi vuoi bene?» (Gv 21,17). La risposta si è fatta consona alla domanda proprio perché la richiesta si era conformata a quanto Pietro era effettivamente in grado di dare. Gesù allora gli affida in maniera definitiva il proprio gregge: «Pasci le mie pecore» (Gv 21,17). È come se dicesse: il volermi bene, e non già l’amarmi più di altri, ti rende capace di voler bene anche alle mie pecore che restano mie e non già tue.