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Attualità
Attualità, 8/2024, 15/04/2024, pag. 270

La lavanda dei piedi

Un gesto di fratellanza anche per i preti?

Piero Stefani

In Giovanni, a differenza dei Sinottici, la parola «piedi» torna solo nella parte finale del Vangelo. Essa raggiungerà la massima intensità in relazione alla «lavanda» (cf. Gv 13,5.6.8.9.10.12.14); tuttavia, il gesto trova una sua consistente anticipazione in riferimento a Maria, sorella di Marta e Lazzaro.

In Giovanni, a differenza dei Sinottici, la parola «piedi» torna solo nella parte finale del Vangelo. Essa raggiungerà la massima intensità in relazione alla «lavanda» (cf. Gv 13,5.6.8.9.10.12.14); tuttavia, il gesto trova una sua consistente anticipazione in riferimento a Maria, sorella di Marta e Lazzaro. Quando il fratello era già morto da quattro giorni e Gesù giunge finalmente a Betania, Maria gli si getta ai piedi; già nell’introdurre la scena s’incunea, però, un’anticipazione redazionale allusiva a quanto verrà dopo: l’atto di ungere i piedi di Gesù (Gv 12,3).

A causa della risurrezione di Lazzaro, il sinedrio decise di uccidere Gesù. Il clima pasquale è ormai tratteggiato a tinte forti. Alla festa mancano solo sei giorni. A Betania c’è una cena, termine già carico di risonanze poste al di là del quotidiano. È in quella circostanza che Maria compie il gesto di ungere i piedi di Gesù con una libbra di nardo e di asciugarli con i propri capelli.

Gesù risponde alle ipocrite proteste di Giuda per non avere devoluto la somma ai poveri con parole che evocano la propria sepoltura. L’unguento è collegato a una custodia paragonabile a quella che avviene allorché si conserva qualcosa per una circostanza speciale. Soltanto che, in quella occasione, quando il momento giunse, fu a sua volta interpretato all’insegna dell’anticipazione: «Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo custodisse1 per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”» (Gv 12,7s).

All’atto della sepoltura Nicodemo avrebbe effettivamente portato cento libbre di una mistura di mirra e aloe (cf. Gv 19,39). Gesù, infatti, fu ucciso con la pena romana della croce, ma fu sepolto da mani ebraiche alla maniera dei giudei (cf. Gv 19,40). Nella cena di Betania avvenne una prefigurazione di tutto ciò. A partire da allora i piedi diventarono sempre più simboli pasquali. 

Il 13o capitolo del Vangelo di Giovanni inizia con la lavanda dei piedi (cf. 13,1-20). Il Maestro si china e compie, nei confronti dei suoi discepoli (Giuda compreso), un gesto da schiavo (cf. Gv 13,5). Dopo che tutti i piedi furono lavati e asciugati, Gesù, rivolgendosi ai discepoli, afferma che se lui, il Maestro e il Signore, ha compiuto un simile gesto, anch’essi devono attuarlo vicendevolmente: «Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come ho fatto a voi» (Gv 13,15).

La condizione di Maestro e Signore si manifesta nel fatto che egli lava i piedi e ordina ai suoi di fare altrettanto tra loro. Gesù non invita nessuno a lavare i piedi a lui. Maria, però, in precedenza, glieli aveva unti e asciugati; fu un gesto autonomo, non l’esecuzione di un comandamento. Per questo motivo sarà ricordata per sempre (cf. Gv 12,3). Maria aveva già intuito la morte di Gesù, evento che rappresenta il significato massimo (anche se forse non l’unico) comunicato dalla lavanda dei piedi. Lavare i piedi a opera del Maestro e Signore simboleggia il suo dare la vita per gli altri.

Il comandamento dell’amore

Il capitolo evangelico prosegue con l’annuncio del tradimento di Giuda. Il discepolo prese il boccone, Satana entrò in lui ed egli uscì nella notte (cf. Gv 13,27-30). Il congedo di Gesù dai suoi ha luogo in assenza del traditore. È ora che egli impartisca ai suoi il comandamento nuovo: «Come io ho amato voi così amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Parole che rappresentano un ulteriore commento all’atto gestuale della lavanda dei piedi e al successivo comando rivolto ai discepoli di lavarsi i piedi gli uni gli altri.

L’espressione «come io vi ho amato» significa dare la vita, mentre l’amarsi a vicenda è un camminare nella vita. Pietro, con il suo iniziale rifiuto di farsi lavare i piedi, non comprende il gesto di Gesù (cf. Gv 13,8); analogamente (ma questa volta per eccesso), l’apostolo, quando dichiara che lui darà la vita per il Maestro, mostra di non capire il comandamento nuovo. Unicamente colui che ora dà la propria la vita per gli altri è nella condizione di comandare ai discepoli di amarsi reciprocamente.

Ambire da parte di questi ultimi a una realtà apparentemente più alta significa, in effetti, presumere troppo di sé. Per tutti i discepoli di Gesù il tempo in cui offrire la propria vita non è mai frutto di una scelta autonoma. Il preannunciato rinnegamento da parte di Pietro costituisce la riproposizione interna del tradimento di Giuda. Nelle nostre vite il comandamento nuovo ci chiede non di dare la vita per Gesù ma di amarci gli uni gli altri (cf. Gv 13,34s). 

Più avanti, sempre all’interno del lungo discorso d’addio, Gesù ripropone il comandamento corredandolo con parole che paiono richiamare la dichiarazione di Pietro di essere capace di dare la vita per il Maestro: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che vi ho comandato» (Gv 15,12-14).

Vi è un esempio da imitare, ma anche un’asimmetria da custodire. Pietro non comprese la connessione tra questi due fattori perciò, senza saperlo, imboccò la via del rinnegamento. La reciprocità dell’amicizia attesta che non è necessario palesare la nostra disponibilità a morire. Il dare la vita per gli amici comporta prima di tutto vivere nell’amore reciproco giorno dopo giorno.

L’atto di morire per gli altri è grande ma, per definizione, non è reciproco. Gesù muore per noi, ma noi non moriamo per lui, neppure quando qualcuno giunge a dare la vita in nome suo. L’espressione «gli uni gli altri» rappresenta una specie di messa in guardia nei confronti della volontà di essere come Gesù. Ai discepoli è comandato d’amarsi reciprocamente nella vita e non già nella morte. 

La lavanda come rito liturgico

La lavanda dei piedi è diventata un rito liturgico del Giovedì santo. Nel corso del pontificato di papa Francesco, il gesto è divenuto a tal punto segno della «Chiesa in uscita» da far sì che l’opinione pubblica lo colga come il punto culminante della messa in coena Domini. Se così si può dire, Giovanni (che non conosce l’istituzione dell’eucaristia) prevale sui Sinottici (che ignorano la lavanda dei piedi).

Questa eco la si deve ai luoghi in cui viene compiuta la celebrazione, tutti collocati al di fuori delle basiliche pontificie. Quest’anno è stata scelta la sezione femminile del carcere di Rebibbia, dove il papa ha lavato e baciato i piedi a 12 donne di varia nazionalità. Nelle brevi parole pronunciate in quell’occasione, il papa ha ricordato la lavanda dei piedi, il tradimento di Giuda e ha soprattutto ribadito il primato del perdono. 

In un’epoca nella quale i gesti di papa Francesco sarebbero stati semplicemente inimmaginabili, Kierkegaard scrisse nel suo Diario parole molto dure rispetto a questo rito cattolico: «Ed era il suo [di Gesù] un abbassamento sul serio. Non era come quando il papa lava i piedi ai poveri e tutti sanno che è il papa, così che ha il doppio vantaggio: oltre quello di essere papa anche quello dell’umiltà».

È fuor di dubbio che un simile giudizio suona improprio rispetto alla soggettività, alle intenzioni profonde e alla recezione del gesto di papa Francesco. L’osservazione del filosofo danese resta però dotata di una sua pertinenza oggettiva rispetto a una carica che, oltre al vescovo di Roma, riguarda ogni altro presbitero.

Nella cerimonia del Giovedì santo è sempre il celebrante a lavare i piedi agli altri, mentre nessuno lava i piedi a lui. Avviene così perché nella liturgia cattolica egli opera, proprio come nell’eucaristia, in persona Christi.

Tuttavia, allorché si tende a porre tanto fortemente in rilievo il gesto della lavanda dei piedi da andare quasi a scapito dell’eucaristica (si può lavare i piedi a tutti, ma non tutti hanno parte alla mensa eucaristica), è inevitabile che si palesi l’istanza della bilateralità. Se la lavanda dei piedi viene assunta come una celebrazione della fratellanza, dovrebbe esserci spazio anche per la reciprocità che vige tra i discepoli.

Il gesto dovrebbe soprattutto trasformarsi in un invito a far sì che nella vita di tutti, presbiteri compresi, si affermi la bilateralità del servizio vicendevole. Non sembrerebbe impossibile introdurre un simbolo liturgico che vada in questa direzione. Lo si è fatto (e nella post-pandemia lo si riprende timidamente a fare) con la stretta di mano che contraddistingue lo scambio del segno di pace. Accarezzare a vicenda i piedi del proprio vicino, il Giovedì santo, sarebbe un atto parecchio inconsueto ma non particolarmente ardito. Il suo significato sarebbe comunque evidente.

In prospettiva esegetica, è sicuramente fantasioso ipotizzare che Gesù abbia concepito, a Betania, l’idea di lavare i piedi ai propri discepoli apprendendolo da Maria. Tuttavia quell’atto, come afferma il Vangelo, non può essere dimenticato.

In questo spirito, sarebbe davvero un’ardimentosa rivoluzione se ogni presbitero celebrante, compreso il vescovo di Roma, si facesse lavare i piedi da una donna come premessa al gesto che compirà, in persona Christi, a favore di alcuni fedeli.

 

1 Il senso è: «Lo scopo era quello di custodirlo». La forma verbale terese è un congiuntivo aoristo di tereo (conservare, custodire).

 

Tipo Parole delle religioni
Tema Ecumenismo - Dialogo interreligioso
Area
Nazioni

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