Il disagio dei preti. Pastori nuovi, nuovi pastori
C’è sofferenza oggi nel vissuto di molti preti, che si «sviluppa in una condizione di particolare solitudine». Personale – legata a ciascun individuo e alla formazione ricevuta –, ecclesiale – vissuta in comunità sfilacciate anche a fronte di un sensibile calo numerico di preti – e sociale – per la perdita di uno status riconosciuto. Non si tratta di puntare il dito sui casi di scandalo, ma di considerare seriamente i segnali d’allarme che chi si occupa di disagio sa rilevare – scrive Raffaele Iavazzo, psichiatra –. L’istituzione ecclesiale sembra continuare a offrire una formazione al futuro presbitero come se vivesse sotto «assedio». Quando la tempesta infuria il castello difensivo crolla. Lo testimoniano anche le risposte a un questionario sulla salute psicofisica che i vescovi francesi hanno inviato ai propri preti (p. 61). Occorre quindi un ripensamento corale perché c’è sempre più necessità «di nuovi pastori, che siano espressione di una nuova comunità e della sua fede e siano ricchi di una buona capacità apostolica», che è compito di ciascun battezzato.
Sono anni che mi occupo dei disagi dei chierici. Sono disagi piccoli e grandi; a volte sono disagi grandi che nascono da questioni comuni come la solitudine, la delusione, la stanchezza e lo stress. Proprio come succede a tutti.
E questo già è un primo discrimine, perché ci sono persone che, per l’aura di particolare rispetto da cui sono circondate, non possono consentirsi di avere i problemi che hanno tutti. Sono persone che la nostra stima mette su un piedistallo, il che solo all’apparenza esprime un particolare riguardo, perché nella realtà significa metterle sotto una lente speciale con il filtro di una particolare severità. Sia ben inteso, io non parlo qui di quelle situazioni scabrose in cui si verificano comportamenti indegni non solo di un particolare contesto come quello ecclesiale, ma di ogni agire maturo e civile, come nel caso delle violenze sessuali, di cui parlano le cronache.
Mettiamoci subito d’accordo sul fatto che non si può fare di ogni erba un fascio e che c’è una moltitudine di presbiteri che vive la bellezza della propria vocazione nella fedeltà quotidiana della loro donazione.
Sono un medico psichiatra e quindi la mia esperienza mi mette a contatto con quello che non funziona, e riguarda la sofferenza che nasce dalla perdita dell’equilibrio psichico per molteplici variabili.
Quello che noto abbastanza puntualmente è che la sofferenza nasce e si sviluppa in una condizione di particolare solitudine. È innanzitutto una solitudine di pensiero: essere dentro una realtà in cui si deve rendere conto solo al proprio giudizio, fare affidamento solo sulle proprie forze, non avere obblighi che a sé stessi, in cui nessuno è più compagno di strada, meno ancora amico, ma antagonista da cui guardarsi, secondo il monito di Bauman.
Solitudine a volte legata alla personalità del soggetto, o volutamente costruita, altre volte colpevolmente indotta per abbandono, opposizione o dinamica di potere.
Solo a sofferenza conclamata c’è l’allarme del contesto e la preoccupazione di chi sta o di chi dovrebbe stare vicino. È probabile che la sofferenza proceda secondo le modalità della china scivolosa, per passi lenti e impercettibili, per cui non c’è subito una consapevolezza piena, nella stessa persona a disagio.
Conosco tante storie personali e posso dire che sono storie in cui c’è stata scarsa condivisione. Un tempo l’azione del presbitero avveniva in ambienti relativamente circoscritti ed era riconosciuta e gratificata e questo lo aiutava a mantenere la propria identità. Oggi i confini, anche grazie ai nuovi strumenti di comunicazione e alle esigenze della vita moderna, si sono immensamente dilatati, le pressioni del mondo esterno sono diventate enormemente più forti e il chierico, specie se giovane, è assai meno protetto.
Ma anche le comunità si sono indebolite e sono diventate contesti in cui capita sempre più di rado di confrontarsi da un punto di vista identitario, con la conclusione che le si assume sempre meno come validi indicatori morali. Anzi, in molte occasioni, per mia esperienza, sono diventate esse stesse generatrici di una messa in discussione della propria vocazione.
Soli con i propri problemi
Ho visto comunità i cui pochi membri sono in evidente difficoltà di relazione e quasi desiderosi di evitarsi.
Il presbitero spesso si ritira la sera stanco, dopo una giornata di fatiche a volte infruttuose, di frustrazioni, di tentazioni, e non ha nessuno con cui parlarne, a cui chiedere un consiglio. Anche i laici, che collaborano con lui e con cui egli ha un rapporto autentico, lo guardano comunque come uno che sta da un’altra parte; non dico estraneo, ma certamente non come un fratello da aiutare.
A volte il pensare a lui come a una guida temo che sia un alibi per farsene meno carico.
A dargli sostegno gli rimangono i confratelli e i superiori.
Ma, per quanto riguarda i primi, sono presi ognuno dalla propria attività e dai propri problemi. La comunità, di fatto, resta spesso un’etichetta senza contenuto. I presbiteri procedono di solito in ordine sparso. Un senso generico di fraternità, che comunque sussiste tra i membri del presbiterio, non impedisce il sorgere di incomprensioni, di conflitti personali e di posizioni distanti, che a volte finiscono per cronicizzarsi e produrre tante ferite.
E così ognuno resta da solo alle prese con i propri problemi.
Quanto al superiore, ormai, nella società contemporanea, non è una figura invidiabile: egli si trova ad affrontare problemi di ogni tipo.
Deve essere un uomo di spiritualità, ma, di fatto svolge anche un ruolo amministrativo e di funzionario, in relazione con altre autorità del suo mondo e di quello civile.
Ci si aspetta che sia un maestro, vicino alle difficoltà personali dei suoi collaboratori e capace di orientare anche dottrinalmente la sua comunità, specialmente in questo periodo di transizione, ma al tempo stesso ha compiti di indirizzo e di vigilanza sul bilancio economico della sua comunità, con gli annessi problemi giuridici e finanziari, che diventano sempre più complicati.
Deve cercare di non apparire troppo, ma si sa che non può fare a meno di un certo presenzialismo anche per i suoi compiti più specifici, di rappresentante e di pastore. Insomma, non c’è da stupirsi se si perde in qualche sentiero di questo accidentatissimo percorso.
Da questo quadro si capisce il perché dell’isolamento in cui molti presbiteri vivono. Un isolamento che favorisce tante mediocrità spirituali, tante pesantezze umane, tante fragilità, tante deviazioni, da quelle meno gravi a quelle gravissime, di cui poi si parla sui giornali.
Quando ho iniziato la professione i presbiteri arrivavano a me pieni di consapevole prestigio, facevano riferimento a comunità numerose e piene di relazioni, anche influenti. Provenivano da seminari in cui la vita era prorompente e ricca di stimoli.
Poi, non so quando è accaduto, la trama di questo tessuto è andata sfilacciandosi, il ruolo si è fatto più sbiadito, i problemi sono accresciuti e le comunità si sono svuotate, lasciando ai loro posti personaggi sempre più soli, più vecchi e più poveri di tante risorse. So che a un tratto anche il linguaggio è cambiato, essere preti non è garanzia di una certa omogeneità di studi, e di formazione, anzi.…
Nel modificarsi degli scenari sociali
C’è stato un moltiplicarsi di riferimenti e di culture, vedi ad esempio l’internalizzazione di alcuni istituti missionari, e questo, se non si fa attenzione, può spingere a guardarsi ponendo l’accento su ciò che divide e non su ciò che arricchisce.
Cambiano i cicli di vita: un tempo la crescita era scandita da riti di passaggio ben precisi. Oggi, invece, il processo di crescita non ha più confini precisi e la transizione da una fase all’altra della vita sembra non determinare più la rottura dell’appartenenza con la precedente età.
Questa perdita dei confini ha aspetti positivi e negativi. Il fluido attraversamento dei confini da una fase all’altra risulta un importante stimolo, purché diveniamo capaci di flessibili aperture, e dalla parte opposta, la confusione all’interno del ciclo di vita rischia di condurre l’individuo o all’isolamento dal contesto, o allo stazionamento in una fase del percorso evolutivo e al rifiuto dell’attraversamento delle «frontiere», o a un nomadismo identitario involutivo.
Oggi c’è una richiesta continua di cambiamento. Appare sempre più evidente che per attraversare la vita adulta non è più sufficiente fare affidamento sulle esperienze accumulate in precedenza, in quanto le incessanti modificazioni degli scenari sociali (dovute al ritmo di accelerazione del cambiamento) impongono rimescolamenti delle aspettative di ruolo, riattribuzione dei significati dell’età e ridefinizione della propria appartenenza all’età e alla generazione. Questo vale anche per chi sceglie la vita sacerdotale.
Coloro che fanno i formatori dovrebbero guardarsi dal pericolo che la scarsità delle vocazioni possa fare allargare le maglie della selezione, al contrario di un tempo, quando si sono visti comportamenti troppo severi, al limite dell’accanimento; di questo nessuno ha rimpianto, per cui non si tratta di spingere il reclutamento nelle fauci dell’irragionevole.
Credo che possiamo essere d’accordo sul fatto che ci sono delle qualità indispensabili per essere ammessi a un servizio e a una vita tanto delicati. Se fosse possibile fare una lista dei problemi da evitare, partirei dall’insufficiente maturazione emotiva, che spesso funziona come una bomba a orologeria, nel senso che i suoi effetti deflagratori si vedono a distanza e quando meno se ne ha bisogno, aggiungendo subito dopo l’incapacità a reggere relazioni sociali coinvolgenti o al contrario la tendenza all’eccessivo coinvolgimento nelle problematiche altrui, per cui diventa difficile distinguere quello che è soggettivamente vissuto da quello che è oggettivamente possibile o impossibile.
In qualsiasi realtà ecclesiale, ai giorni d’oggi, il presbitero, o qualsiasi altro religioso, fa i conti con condizioni fisiche, politiche e culturali per cui è necessaria una buona tolleranza alla frustrazione, con una sufficiente capacità di elaborare i limiti o gli insuccessi, senza viverli ogni volta come una propria responsabilità.
Il tema della responsabilità
I giovani, da parte loro, dovrebbero cominciare il loro percorso formativo con un sano discernimento circa le motivazioni di una tale decisione, escludendo un inconsapevole desiderio di fuga da responsabilità altrove individuate o la ricerca di un «luogo» dove più tranquillamente approfondire la conoscenza di sé, senza gli assilli che altre scelte comportano, o un subdolo desiderio di esercitare potere decisionale sugli altri, con una pericolosa sindrome del «salvatore», con un’idealizzazione delle proprie capacità e del proprio ruolo. Sia ben chiaro: questi non sono pericoli assoluti. Ciascuno di noi ha fatto i conti con queste evenienze, e probabilmente siamo partiti proprio da certe caratteristiche per valutarle ed eventualmente correggerle, misurando il senso delle nostre motivazioni per meglio adeguarci.
Nella mia relazione con certi pazienti chierici un problema con cui debbo fare frequentemente i conti è il posto dell’azione individuale.
Ci sono due modi di pensare, uno che trova il senso dell’agire individuale ricercandolo in una realtà al di sopra dell’individuo come Dio, la società, l’istituto, la comunità che lo ospita, e l’altro che riconosce all’individuo di essere generatore di senso delle scelte che fa.
Questo porta direttamente al tema della responsabilità, cioè alla nostra capacità di rispondere, di riconoscere e di scegliere possibilità e limiti di quel campo di relazioni che ci costituisce in un certo momento.
Ma che aiuto dà la formazione dei presbiteri al tema della responsabilità? Quali sono i suoi percorsi, le sue esemplificazioni, i suoi allenamenti, la verifica della sua crescita e impegno? Il futuro presbitero è libero da preoccupazioni economiche, libero dalle comuni inquietudini che affliggono i suoi coetanei, a partire da quella della ricerca di un lavoro e fatica di mantenerlo, in un contesto di continua autoreferenzialità, con l’unico compito di accreditarsi come persona degna di cooptazione, prima che di merito.
Lo stesso concetto di vocazione si gioverebbe di essere accompagnato da quello della responsabilità che ne deriva.
Che posto ha nella formazione il principio del distacco e della spoliazione del sé?
Il distacco è un principio centrale per una vita di libertà e di donazione e ci guida nella scelta delle priorità e delle cose che contano, nel sentirsi co-creatore, con la gioia che ne consegue, ma anche creatura, che è dentro la logica della grazia.
Qual è la nostra capacità di agevolare i talenti e non la conformità, la creatività nella ricerca del bene e non il pavido mimetismo per timore di perdere il consenso?
La nostra identità è un processo di costante negoziazione tra parti diverse del sé, tempi diversi del sé o ambienti diversi o sistemi diversi di relazioni, in cui ciascuno di noi è inserito. Essa è fatta dalla capacità di tenere insieme le nostre parti diverse. Alcune richiedono scelte che non sono consapevoli. Ciò che siamo non dipende solo dalle nostre intenzioni, ma dalle relazioni in cui queste intenzioni si situano. Siamo dunque anche le nostre relazioni, quelle che accettiamo o che rifiutiamo, quelle che ci limitano o che ci arricchiscono. Questo richiede un grande sforzo di rimanere saldi nella propria identità nonostante tutti i mutamenti che ci vengono richiesti. Questo richiede un’affettività matura e solida.
Alcuni, invece, rimangono vittime di questi mutamenti: sono così dipendenti dalle relazioni che le assorbono acriticamente e si disperdono in mille frazioni senza ritrovare più la loro unità.
Quando i volti diventano maschere
A volte questo è vissuto con lentezza e si ha il tempo e le occasioni per chiedere aiuto e per riceverlo. Altre volte non si ha forza sufficiente per riconoscere la propria debolezza o difficoltà e si procede con apparente immobilità, moltiplicando i volti, che nel frattempo rischiano di diventare maschere, e i linguaggi, che non sono più tentativi adattivi a una società complessa, che esige di parlare più lingue, ma diventano recite funzionali a esprimere ruoli di facciata e a nascondere desideri che non abbiamo la forza di giustificare, in una nuova Babele in cui non sappiamo più se siamo vittime o carnefici in un gioco vuoto, in cui siamo diventati stranieri a noi stessi e agli altri, senza la speranza di compassione per sé e per gli altri e senza l’umiltà per chiedere il cambiamento.
In genere il laico è più libero di ammettere il gioco «perverso» in cui eventualmente è caduto e può ricominciare daccapo. Qualche volta in questo c’è il ruolo benefico di una compagna, che più direttamente ha vissuto il disagio di una metamorfosi dannosa per la convivenza.
Spesso il chierico è privo di questa rete di sostegno, perché nella comunità è più facile mimetizzarsi e perché non ci si sente liberi di ammettere il proprio «allontanarsi», perché le conseguenze negative per la comunità si caricano di significato morale e spirituale e la dimensione del disagio psicologico si associa a quella della colpevolezza, della responsabilità e perfino del peccato. E quando si trova il coraggio per affrontare anche le sfide che la dimensione clericale comporta spesso il gioco si è spinto troppo avanti e l’arrivo nello studio di una psicoterapia porta i segni di un disagio di vecchia data.
Nella mia esperienza trovo il chierico più solo nell’affrontare le difficoltà e più impacciato ad ammetterle, forse perché si sente meno libero, come se avesse l’obbligo di una maggiore immunità da certe debolezze, e lo ritengo più bisognoso di sostegno anche perché è più timoroso del cambiamento.
Lo trovo più solo e anche meno orientato alla preghiera e alle virtù.
Il discorso sulla preghiera richiama la qualità del proprio progetto di vita in coerenza con la scelta di Dio, come unico e sommo bene, a cui dedicare, in un modo esclusivo, l’interezza della propria vita, in un rapporto personale e consapevole, di cui la preghiera si fa espressione e segno distintivo di una relazione e non di un ministero o professione.
Quando, invece, la preghiera è solo per rito, le parole si logorano e con esse si logorano i concetti che esprimono: più le usi e più diventano opache, se non incomprensibili, per la vuotezza che le assale e per la scarsa attenzione e credibilità che ricevono.
Per quanto riguarda le virtù, il loro riferimento può essere considerato, a prima vista, un discorso antiquato e non più di moda, ma a ben pensarci esso è l’unico che ci può far superare le tante difficoltà che la vita ci consegna; difficoltà di vita personale e di relazione, difficoltà spirituale e di azione nel nostro lavoro.
L’incoerenza sul celibato
Il discorso sulle virtù non può che partire da lontano, perché la virtù è una capacità operativa che richiede grande allenamento e non si può improvvisare. Per credere, sperare e indirizzarsi all’azione di disponibilità all’altro, bisogna attivarsi tutti i giorni e non senza fatica, così come essere giusti, prudenti, forti e coraggiosi nell’azione morale e temperanti ed equilibrati tra le istanze del nostro io e quelle della comunità. Ogni giustizia, ogni diritto, ogni dovere saranno diversamente vissuti, a seconda che si faccia riferimento alle virtù o alla loro esclusione. Questo vale per tutti, medici e operai, giudici e artigiani, ma molto di più per chi ha scelto grandi ideali e una vita comunitaria, come sanno i genitori e i chierici. O dovrebbero.
Poi ci sono le situazioni scabrose. A sentire certe cronache e certe denunce, sembra che la Chiesa, maestra di umanità, tragga i suoi membri tra i peggio formati e senza più capacità di selezionare tesori di cultura. Una sorta di contrappasso, dopo anni di formazione insistente sulla necessità di essere superiori a ogni debolezza umana, per il distacco da questa terra, in una negazione ignara e dannosa (ora sappiamo fino a che punto) del fatto che essa ha pastori umani, e comprende nel suo seno peccatori ed è perciò, benché santa, sempre bisognosa di purificazione, come ricorda la Lumen gentium.
Possiamo discutere a lungo su molte questioni, e magari trovarci pienamente d’accordo sul fatto che non ci sia nulla di per sé indiscutibile, ma ci rimarrebbe sempre il compito di dare una risposta a questa realtà che sta sotto i nostri occhi, all’osservazione che la disciplina del celibato risulta diffusamente inosservata e con modalità molto imbarazzanti (cf. anche box qui sotto).
Non dobbiamo muovere al celibato critiche generiche e superficiali, ma neanche dobbiamo farne un elogio acritico, che non gli fa giustizia e rischia di banalizzarne il significato di assoluto dono di sé che una creatura fa al suo Signore. Si tratta di considerare gli effetti di una continenza coatta, in una società profondamente modificata, in cui nulla è più paragonabile a un prima anche appena passato. Sono cambiati le nostre mappe mentali, la società, le condizioni e il significato dell’autonomia di un soggetto adulto, la relazione tra individuo e società.
Gli «esperti in umanità» possono raccogliersi a riflettere su cosa sia diventata la loro ricca esperienza, di fronte a uno scenario di corruzione su così larga scala e con un tale trasgressivo comportamento che tanto male fa alle nostre comunità?
Ha a che fare con quel monito del Signore: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18)?
O ha a che fare con un’attitudine di autoreferenzialità di certi chierici, l’arroganza di sentirsi al di sopra di ogni regola, un perdersi senza controllo, senza critica, senza confronto, senza alcuna possibilità di tornare in sé, lontani dal giudizio degli uomini, ma evidentemente anche lontani dal giudizio di Dio?
E questo non riguarda solo presbiteri di periferia, ma anche presbiteri e prelati di elevata formazione, che forse hanno pure avvertito la vergogna della loro incoerenza e della loro paradossale ipocrisia.
I comportamenti trasgressivi
È sempre vero che il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato? O ha vinto il legalismo con la sua dottrina e i suoi codici, senza alcun riferimento allo spirito, su cui pure c’è stata tanta insistenza?
Il clamore di certi casi non fa bene neanche alla riflessione. Si tende a creare un clima dove è facile vedere il marcio dappertutto, a contaminare anche il più ingenuo dei gesti e dei rapporti e si diventa impacciati contro ogni ragione, condizionati e meno spontanei in ogni attività, specie quelle in cui le distanze sono più personali e intime.
E può accadere di sentirsi in colpa per ogni azione di sostegno a certe situazioni difficili, e di sentirsi richiamati unicamente da un dovere di denuncia, senza alcuna concessione all’obbligo di distinguere il peccato dal peccatore, passando dal colpevole eccesso di tolleranza all’altrettanto colpevole eccesso di intolleranza e di incapacità di comprensione.
La condanna della violenza sessuale deve essere così decisa da non dover avere imbarazzo a supportare il peccatore; la cura, l’attenzione sensibile e delicata alle vittime, la loro protezione, deve essere così premurosa da saper gestire senza equivoci e ambiguità di giudizio ogni azione di sostegno e di riabilitazione verso chi ha sbagliato.
Anche i figli più vicini provano dolore per una certa afasia delle istituzioni, che non sa dire parole di orientamento e di spiegazione, come se ci fosse la paura di un perdersi senza ritorno.
C’è bisogno di rimanere saldi nella speranza che la Chiesa sappia recuperare dalla sua storia millenaria e dalla preghiera quotidiana, che ancora la sostiene, la capacità di saper riconoscere come Davide il suo peccato e l’umiltà di confessare al suo Signore e pubblicamente la propria colpa.
L’esperienza di chi è chiamato a dare soccorso, spesso quando il peggio è già accaduto e magari da molto tempo, ci dice che alcuni arrivano in seminario con una storia che da sola avrebbe potuto e dovuto sconsigliare di proseguire sulla via del sacerdozio.
Altri hanno un percorso formativo di tutto rispetto e solo strada facendo sentono l’affievolirsi delle iniziali motivazioni, passando a un relativismo etico e alle logiche di un individualismo esasperato, fino all’indifferenza religiosa o alla perdita della fede.
Molti hanno costruito una doppia morale, con una dissociazione della loro coscienza, abbinando un comportamento disinvolto e trasgressivo, anche clamorosamente trasgressivo, alla paradossale dichiarata difesa del loro celibato, proclamandone la bontà e necessità e la disponibilità a sceglierlo di nuovo, se fosse il caso.
Altri, subendo la pressione che proviene da tanti lati, riconoscono che si sono arrangiati per come hanno potuto. La carne è debole, gli ormoni sono tanti, le occasioni prossime pure, senza volerlo, senza pensarci, in solitudine, con una comunità magari fredda e distante; è accaduto e non senza dolore, un dolore che ha molti destini. Spesso un amico, un amico che può avere titoli e competenze diverse dal presbitero, dallo psicologo, dal medico, fa beneficamente la sua comparsa in scena.
La psiche e l’anima
Arrivano il confronto, l’uscita dalla propria solitudine e la possibilità di una rivisitazione in senso critico. A volte l’arrivo dell’amico è inutile perché l’abbandono di certe regole ha coinvolto un’altra persona che reclama chiarezza e coerenza. È utile solo per confortare e consigliare di non perdersi d’animo e per rimettere ordine.
Tanti rimangono prigionieri della loro turpe maschera e procedono con crescente, patologica disinvoltura, fino alla perdita totale di ogni consapevolezza, in una difesa disfunzionale che consente loro di vivere con apparente adattamento a una vita normale.
Bisogna avere pena per tutti questi, pena per la loro perdita di speranza e per l’inferno di sentirsi lontani dallo sguardo, dalla misericordia e dal respiro del Padre.
Tocca a tutti noi cercare e trovare rimedio per tanta sofferenza e per i molti che vi sono coinvolti. Sorprende che in tanti anni di evidente difficoltà non ci sia stato nessun significativo tentativo di affrontare il problema in modo pubblico, né a livello istituzionale, né a livello comunitario. Perfino la preghiera ne è sembrata distante, mentre il problema ha assunto dimensioni così macroscopiche da meritare un anno santo.
Qualche volta, nella solitudine, capita anche che si faccia confusione tra psiche e anima e che ogni problema venga riportato nell’ambito della direzione spirituale, e allora l’intervento dello specialista richiede una specificazione aggiuntiva, una diagnosi differenziale, che a un occhio non esperto sembra un’esagerazione, ma che nell’esperienza quotidiana è assai subdola e diffusa. Ho avuto in terapia persone dall’animo colto e delicato, che per me sono state fonti di edificazione, che io ho dovuto semplicemente rassicurare, riconoscendo alla loro condizione solo lo statuto della malattia, liberandole dall’angoscia di un tradimento della loro vocazione, solo perché si sentivano più apatiche nella preghiera e nel servizio, come capita tipicamente a chi ha una flessione nel tono dell’umore o riconosce pensieri intrusivi come nel disturbo ossessivo. Nella malattia alcuni sentono ancora di dover rispondere alla domanda: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori…» (Gv 9,1), dimentichi della risposta che già allora fu data, come per dire: «Non ritorniamoci più sopra».
Nel disagio psichico e nella possibilità di cambiare interviene una molteplicità di cause, perché esso coinvolge la persona nella sua globalità e a volte si perde tempo nella logica causale, che ha l’ingenuità di pensare che la malattia sia il risultato finale di una serie lineare di eventi, mentre quello che dobbiamo riconoscere è che essa risente del contributo di processi multipli che toccano la persona in profondità.
Quello che osservo in tante situazioni è che manca il linguaggio adeguato a esprimere le difficoltà e il corpo appare una buona scorciatoia per comunicare le cose che non vanno e di cui spesso non si ha neppure consapevolezza. Qualche volta si ha solo voglia che qualcuno si prenda cura di noi, perché siamo stanchi di soffocare per l’ennesima volta i nostri bisogni rinviati, di anteporre il servizio agli altri alle nostre esigenze personali.
La formazione e i cambiamenti
Qualcuno inizia, forse per la prima volta, un percorso di individuazione che lo porterà lontano, lungo un cammino con tante tappe di discernimento e di maturazione, con ripensamenti e con la ricerca delle motivazioni più consapevoli. In queste condizioni l’incontro con lo psicologo clinico si carica di particolare intensità umana, e alla professionalità dello specialista si chiede la grazia di una testimonianza, il conforto di una solidarietà meditata, un rito di accoglienza e di legittimazione, perché non si è totalmente dentro, ma neanche totalmente fuori, e al terapeuta si chiede una restituzione di senso, di essere ponte della narrazione del proprio sé, per essere aiutati a ricomporre i legami della continuità della propria storia, una sorta di riconciliazione psicologica. Quello che emerge è il bisogno di un ritorno nella propria comunità chiamata a essere la garante della propria identità, un ritorno a un cammino di visibilità e di riconoscimento, un bisogno di essere chiamato per nome e di rispondervi con l’idea di un impegno da rispettare.
Paolo VI, nella sua prima enciclica Ecclesiam suam (6.8.1964), scrive: «È a tutti noto che la Chiesa è immersa nell’umanità, ne fa parte, ne trae i suoi membri, ne deriva preziosi tesori di cultura, ne subisce le vicende storiche, ne favorisce le fortune. Ora è parimenti noto che l’umanità in questo tempo è in via di grandi trasformazioni, rivolgimenti e sviluppi, che cambiano profondamente non solo le sue esteriori maniere di vivere, ma altresì le sue maniere di pensare. Il suo pensiero, la sua cultura, il suo spirito sono intimamente modificati sia dal progresso scientifico, tecnico e sociale, sia dalle correnti di pensiero filosofico e politico che la invadono e la attraversano. Tutto ciò, come le onde d’un mare, avvolge e scuote la Chiesa stessa: gli animi degli uomini, che a essa si affidano, sono fortemente influenzati dal clima del mondo temporale; così che un pericolo quasi di vertigine, di stordimento, di smarrimento può scuotere la sua stessa saldezza e indurre ad accogliere i più strani pensamenti, quasi che la Chiesa debba sconfessare se stessa e assumere nuovissime e impensate forme di vivere» (n. 28; EV 2/173).
Nessuno poteva prevedere la velocità di queste trasformazioni e nemmeno gli effetti. L’azione di quelle onde del mare l’hanno avvolta e scossa e anche isolata, sì che la sua parola si è fatta meno prestigiosa ed è caduta perfino in sospetto, dentro un contesto inquinato «dal pregiudizio che i cattolici non siano credibili, che abbiano interessi che non dichiarano, che la proposta di vita della comunità cristiana mortifichi l’umano, invece di esaltarlo, comprima la libertà invece di promuoverla», come ci ha ricordato l’arcivescovo di Milano mons. Mario Delpini (Omelia alla messa di inaugurazione della rinnovata sede del PIME di via Monterosa, 15.9.2019).
Nonostante la lucida premessa dell’Ecclesiam suam, la formazione del presbitero è andata avanti con una sensazione di assedio, e con un bisogno di protezione e di difesa.
Questo movimento di trasformazioni carico di energia ha spaventato la Chiesa e l’ha travolta, come capita quando il governo di certe situazioni non sa trovare la sapienza adeguata e si lascia prendere da disorientamento e ansia di perdere l’essenziale della propria storia, e magari si naviga a vista, con improvvisata preparazione e miope programmazione.
La scelta dei candidati
E ci siamo trovati, in tante occasioni, di fronte a una serie di eccedenze, l’eccedenza del personale sul comunitario, del fare sull’essere, del materiale sull’ideale, del prestigio della propria condizione sulla fedeltà ai valori e alla Parola, dell’interesse egoistico sul diritto e sulle regole. Quando le onde del pensiero, della cultura e dello spirito dell’umanità hanno condizionato la crisi delle vocazioni, forse alla selezione dei futuri presbiteri può essere subentrata la sindrome dello psicologo affamato. È questa un’espressione che una mia docente alla Scuola di specializzazione a Milano usava per intendere il condizionamento del bisogno, che all’inizio di carriera di uno psicologo gli fa accettare i casi al di là di ogni competenza.
Allora la prima regola che viene in mente per una adeguata formazione è la scelta meditata dei candidati al sacerdozio.
I criteri della scelta dei presbiteri hanno una lunga e variegata storia, ma fin dall’inizio c’è stata l’indicazione di alcune insopprimibili qualità, come l’irreprensibilità, la non arroganza, la sobrietà dei costumi, l’onestà, l’amabilità del carattere, l’assennatezza e la dottrina sicura. Si tratta di caratteristiche personali in cui non ci sono vincoli di etnia, di stato sociale, di età o di stato civile.
Sarebbe interessante studiare la storia di queste indicazioni, i metodi per accertarle e per averne cura. Di fronte al dilagare di tanti scandali, e non solo di ordine sessuale, viene da dubitare della sicura efficacia degli attuali metodi.
La valorizzazione dei laici fatta dal concilio Vaticano II avrebbe dovuto mettere i chierici in una migliore condizione, passando da un ministero di comando a un altro di servizio, ma l’effetto più evidente in tante occasioni sembra l’appiattimento del ruolo e dell’identità del chierico in una malcelata emulazione delle istanze laiche, perfino nella diversificata formazione e nell’ambito della sessualità. Forse a nessun’altra condizione di management è accaduto un destino di deriva così passiva e poco esigente nei criteri di selezione e di verifica delle attitudini e delle competenze dei propri membri.
Il calo delle vocazioni riconosce molti motivi. Personalmente credo che non sia stato ininfluente un aumento del senso critico verso il magistero e verso l’insistente difesa del suo storico potere, una diversa velocità tra pastori e gregge, una lettura non sincrona dei segni dei tempi, con l’introduzione di molti elementi che trovano il popolo di Dio e i suoi pastori su posizioni differenziate e sempre più distanti.
E, in molti casi, è accaduto che mentre i seminari cercavano, chi più chi meno, di darsi progetti educativi più adeguati ai tempi, le nostre comunità cristiane non assicuravano quell’affettuosa attenzione auspicata e che in tempi anche non lontani aveva garantito il crescere di nuove vocazioni al ministero presbiterale.
C’è stata una dissociazione culturale, da un lato il clero con le sue regole e il suo storico pensiero, dall’altro lato le comunità che avanzano con una maggiore autonomia di ricerca e di discernimento. I giovani presbiteri sono stati in mezzo, intrappolati e confusi in questa dissociazione.
Cambiare la formazione
I seminari hanno svolto una lodevole funzione per molti lustri e sono stati la culla di spiriti eletti. La Chiesa deve a loro stima e tanta riconoscenza. Ma il contesto in cui essi attualmente operano è radicalmente cambiato e la formazione avverte il bisogno di rimanere in stretto contatto con il popolo di Dio, condividendone pene e affanni, gioia di vivere e soddisfazione di sentirsi degni di essere custodi del creato e attenti al suo destino e a tutte le sue creature, innanzitutto a quella umana. L’apertura al mondo e alle sue istanze non è possibile senza una solida preparazione teologica e filosofica, che poggi solidamente sulla costruzione di quell’umano di cui la Chiesa è ancora maestra.
Forse per tutto questo i seminari devono accettare che è giunto il tempo di cambiare.
La scelta vocazionale è molto più personale e meno dipendente dall’aria che si è respirata in famiglia da ragazzo.
La famiglia, che un tempo sollecitava e accompagnava la vocazione, si è trovata in molti casi a essere un ostacolo o addirittura una negazione alla stessa, lasciando il giovane candidato in una solitudine anche culturale e spirituale, come se la famiglia avesse voluto proteggere i suoi figli nella convinzione che la sequela di Gesù non garantisse più un’esistenza compiuta e soddisfatta, assumendo invece la preoccupazione contraria, di fronte a tanti abbandoni e scandali.
In molti altri casi, invece, la famiglia è così disgregata da costituire un ambiente desolato e altamente problematico, in cui è il giovane a dover difendere con le sue sole forze le sue scelte e il suo progetto di vita.
Lo stesso modo di entrare in contatto con la Chiesa è cambiato e tutto questo ha ripercussioni nella rappresentazione sociale della figura del presbitero, nel modo di immaginarsi da parte dello stesso futuro presbitero. Chiesa e novello presbitero spesso si conoscono tardi, e per vie personali e senza il coinvolgimento del contesto ecclesiale, come se la chiamata riguardasse solo uno spazio privato, come se fosse scelta e non chiamata, quindi.
Il concetto di chiamata appare meglio rispettato nel contesto di un movimento ecclesiale o di un istituto religioso, ma le ragioni sia della formazione sia del proprio destino ne sono condizionate e ci troviamo di fronte a presbiteri che rispondono a ruoli particolari, per esigenze particolari, e viene da chiedersi se non si perda qualcosa di essenziale e di universale, come la capacità di portare Dio al mondo incarnando il Vangelo nella fatica del quotidiano vivere, rimanendo agganciati al presbiterio della comunità.
Il riconoscimento del sacerdozio comune a tutti i battezzati presente nella Lumen gentium è stato una grande affermazione di principio, ma con risultati molto deludenti sul piano della vita ecclesiale e della sua organizzazione. È migliorata la consapevolezza dei laici circa la loro vocazione, ma non è migliorata la coerenza della vita interna della Chiesa. La svalutazione relativa del valore del sacerdozio ordinato ha potuto far apparire come particolarmente pesante il suo costo sociale, come il celibato e la consegna della propria vita all’obbedienza all’autorità e alle sue norme.
Il contesto comunitario
Questo non spiega tutto: dobbiamo infatti considerare i mutamenti notevoli della società, con una messa in discussione generale delle tradizioni istituzionali familiari, sociali e religiose. Comunque, a una certa sordità e cecità di fronte a tanti mutamenti è attribuibile una buona responsabilità e ancora persiste una sorta di stupore e di disorientamento, che impediscono di trovare la via di una diversa organizzazione a correzione del tutto.
Il calo delle vocazioni, a sua volta, è diventato causa di altri problemi, perché la scarsità numerica ha messo in discussione non solo l’impegno a mantenere soluzioni abitative sproporzionate e diseconomiche, ma ha complicato anche il reclutamento di insegnanti di valore, con una svalutazione conseguente della proposta formativa e della sua continuità, senza citare la perdita del valore comunitario.
I seminari separano i candidati al sacerdozio dalla loro comunità familiare e sociale, mentre è nel contesto comunitario che si sviluppa la capacità di vivere rapporti che esprimono comprensione e affabilità, maturità oblativa, disponibilità a voler bene e a lasciarsi voler bene.
È nella comunità che si sperimentano i vantaggi della reciprocità e la sana gestione dei conflitti, il confronto dialogico e l’abitudine a non ritenersi la ruota del mondo, in uno stabile equilibrio tra le ragioni dell’io e del noi, unica premessa di libertà che non è mai distanza.
Nei seminari, quando le cose funzionano, possiamo immaginare il ruolo benefico della comunità dei formatori, scelti non solo per la loro bravura a essere insegnanti esperti, ma perché ritenuti maestri capaci di rappresentare un modello appetibile, testimoni affidabili della fatica del vivere, ma anche della sua bellezza e delle sue energie.
Non sempre e non dappertutto è così. Il più delle volte possiamo parlare di équipe formativa, sullo stile di un’accademia, di un corso di studi, con tappe programmate poco personalizzate, dove ci può anche essere una buona analisi introspettiva e psicologica, ma in cui l’individuo corre il rischio di ritrovarsi sostanzialmente solo e autoreferenziale nel rapportarsi alla volontà di Dio e alla sua Parola, nella cura della ricerca della sua volontà, nel lento discernimento del progetto che il Signore ha su di lui e il modo con cui egli lo guida attraverso i piccoli segni della vita di ogni giorno e della realtà.
La comunità educativa migliore per un candidato al sacerdozio è quella che si configura come un contesto vitale, in cui si sperimentano atteggiamenti di responsabile partecipazione e condivisione alla gestione della vita in comune, ciascuno nei propri ruoli e con l’apertura ad acquisirne di nuovi e di maggior coinvolgimento. È una comunità che condivide fede, speranza e carità, che quindi va bene per ogni scelta umana, dentro una condizione che si apre con gioia alla bellezza dello statuto trinitario e in questo si sente corroborata a leggere totalmente e liberamente il proprio io, i propri sentimenti e desideri.
La proposta al sacerdozio dovrebbe essere rivolta agli uomini delle varie età, compresa quella matura, talvolta dopo l’esercizio di qualche professione, sotto lo sguardo vigile ma premuroso del magistero, con animo generoso e illuminato, che sappia coinvolgere le responsabilità delle comunità pastorali e dei suoi membri più consapevoli.
Scendere dal monte
Infatti, solo persone consapevoli dei loro limiti, capaci di perdonarsi e di perdonare, testimoni coerenti e attendibili delle difficoltà della vita e della ricerca di una vera esperienza di Dio, possono rappresentare i riferimenti su cui le comunità possono contare nel loro futuro.
Quando i contesti formativi sono troppo chiusi e ripiegati su sé stessi rischiano di provocare quella che possiamo chiamare sindrome del monte Tabor, la tentazione, cioè, di rimanere ancorati alla condizione di autosufficienza e di rispecchiamento, storditi e innamorati di quel miraggio di bellezza, senza ricordarsi che invece la funzione richiede di scendere dal monte.
Liberarsi dalla sindrome del monte Tabor è la rinuncia non solo a rimanere dentro il perimetro delle tende, ma anche a rimanere nel perimetro della comunità ecclesiale, perché la comunità non aperta al mondo è una comunità che tende all’asfissia e a non diventare il sale della terra.
Lo scendere dal monte è necessario per essere fedeli alla vocazione di andare e predicare, per essere testimoni proprio di quel miraggio di bellezza e per ricordare alla comunità il proprio dovere di collaborare alla costruzione del Regno, anche assumendo la responsabilità di sollecitare nuovi presbiteri.
Sarebbe auspicabile, nella precoce esperienza pastorale dei candidati al sacerdozio, l’introduzione di prolungate permanenze presso contesti familiari di particolare significato: un tirocinio qualificato e diversificato, come capita agli studenti di medicina, di diritto, delle scienze dell’educazione ecc., per sperimentarsi nelle varie forme del futuro ministero, ma senza pregiudizi, non clericale, davvero radicati nella vita della comunità aperta al mondo, ricordando che la liturgia è fonte e culmine dell’azione della Chiesa e non rifugio dal mondo, ciò che ne sarebbe una oltraggiosa negazione.
Un’osservazione frequente è che certi problemi sono più evidenti lì dove il clero ha vissuto come casta separata dal popolo, talvolta senza una robusta formazione e senza adeguata motivazione, con molti problemi personali di bloccato sviluppo e con una concentrazione poco pastorale e molto focalizzata su aspetti rituali e devozionali.
Decisivo in ordine alla formazione è il ruolo del vescovo; su di lui pesa la responsabilità di dire parole che esprimano l’insufficienza degli attuali metodi di preparazione e selezione dei candidati al sacerdozio. Ne va del futuro delle nostre comunità.
Una parola da spendere riguarda la storia dei seminari, con la necessità di prendere atto che quella storia è radicalmente cambiata. È cambiata la società, è cambiata la famiglia, è cambiato l’individuo, è cambiato lo stesso contesto ecclesiale.
Il giovane candidato al sacerdozio, nei seminari, corre il rischio di una maggiore solitudine epistemologica; nella visione del mondo e nella costruzione del sé è più solo, più condizionato da tanti fattori rispetto ai suoi coetanei, in un contesto che ogni giorno gli grida con maggiore intensità e disagio il suo essere diverso. Dei giovani d’oggi egli condivide lo statuto di figlio di una società liquida, appartiene, cioè, a una generazione senza tutto, come diceva Bauman, ma è chiamato a rispondere a un destino in cui abbiamo messo, senza attrezzarlo seriamente, la più alta vocazione.
Ne deriva una seconda parola di preoccupazione, perché i seminari sono sempre meno e meno frequentati e si fa sempre più frequente la domanda circa le ragioni per cui alcuni scelgono una vita così carica di fatiche, che richiede energie di qualità diverse, col sospetto in molti casi che essa sia motivata dal desiderio di risolvere problemi personali di varia natura. Tanti giovani presbiteri sono, infatti, insicuri, con problemi di identità, e con disagio psicologico, con una predilezione degli aspetti rituali, dell’insistenza sull’abbigliamento e sul ruolo clericale.
Le comunità si interroghino
In molte comunità non vi sono presbiteri e si dichiarano fortunate quelle che possono averne dall’estero, trascurando che la soluzione può definirsi solo momentanea, perché il processo di occidentalizzazione è globale.
Abbiamo bisogno di nuovi pastori, che siano espressione di una nuova comunità e della sua fede e siano ricchi di una buona capacità apostolica. L’abbandono della pratica religiosa è crescente e in molti casi viviamo già in comunità da evangelizzare.
È necessaria una presa di coscienza di tutte le comunità, che sono rimaste troppo bloccate su posizioni di delega, poco inclini a prendersi le loro responsabilità, compresa quella che riguarda la scarsità dei loro pastori.
Bisogna poi considerare il pericolo insito nel portare la riflessione circa la condizione sacerdotale a un livello di così alta spiritualità, pensando il presbitero come salvatore d’anime, evangelizzatore e adoratore sacrificante, tralasciando di curare la natura dei suoi vissuti umani e dei suoi bisogni.
C’è da chiedersi, nell’ingravescente condizione di spopolamento delle comunità e nella diaspora spesso clamorosa e disperata dei nostri preti, se non ci sia stata una colpa per avere, in una china scivolosa di una lunga storia, mortificato la gioia dei pastori a cui è stato affidato il gregge di Cristo, e pensare alla possibilità di percorsi differenziati nel loro reclutamento e nella loro formazione, per evitare il deserto di cui vediamo ogni giorno la desolante realtà, togliendo ogni pretesto all’arte dell’arrangiarsi, verso il ritiro in una ricerca di soluzione personale, che può essere sempre più personale, sempre più lontana.
La messe è molta e gli operai sono così ridotti che intere comunità non hanno il presbitero per periodi lunghissimi. In molte zone l’Italia sembra diventata terra di missione ed è affidata a presbiteri provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina o da paesi dell’Est Europa.
La situazione richiede di affrontare il problema senza salti nel buio, ma consentendo alla prudenza la più ampia libertà di esplorare le vie più coerenti per assicurare alle nostre comunità di raccogliersi attorno all’altare per celebrare il rendimento di grazie, l’eucaristia, e a tutti l’annuncio del Vangelo.
La realtà e la varietà dei problemi, tra loro intimamente interconnessi, richiedono alla Chiesa tutta un serio e durevole impegno a prestare un’attenzione scrupolosa alla formazione, per selezionare candidati veramente motivati, preparati, che non cerchino la loro sistemazione personale nella modalità più facile, con un giusto distacco dal proprio io e consapevoli dei propri limiti e della propria condizione di creatura, che si sentano parte del popolo di Dio e non al di fuori e al di sopra di esso, allenati alla responsabilità e al merito, che non è solo una questione teorica, ma è esercizio quotidiano di saper dire pane al pane e vino al vino, con tutte le conseguenze che questo comporta, senza tentazioni di carriera e di vano narcisismo, per essere strumenti docili della provvidenza di Dio.
Una solida preparazione culturale, insieme a una buona relazione con la comunità di appartenenza, sembrano funzionare da garante adeguato al muoversi in libertà e sicurezza. Alla cultura compete sempre il compito di interpretare e orientare ciò che è nuovo, afferrando l’essenziale del presente con uno sguardo carico di speranza verso il futuro.
Alla buona relazione con la comunità è affidato il compito di funzionare come base sicura, da cui partire per esplorare il mondo, imparando a gestire le conoscenze, a migliorarle, a esprimerle, a confrontarle, nell’umiltà di sapersi parte e nel maturo e saggio orgoglio di sapersi unici, non trascurando la grande risorsa del mondo emozionale e delle sue regole. Una comunità di fede dà a tutto questo una bellezza formidabile, aprendo le prospettive all’universalità e alla santità, intesa nella continua comunione col Padre, pur nella consapevolezza dei propri limiti.
Raffaele Iavazzo *
* Raffaele Iavazzo è psichiatra ospedaliero in pensione e bioeticista con master presso la Pontificia università lateranense. Nel corso del presente articolo si fa riferimento tanto ai chierici diocesani quanto a quelli appartenenti a istituti di vita consacrata o a società di vita apostolica.