Vangelo e pandemia
Cerco fatti di Vangelo in pandemia: ne ho raccolti fino a oggi 55 nel mio blog e intendo continuare. L’incoraggiamento che trasmettono è il dono di questa stagione tribolata e io mi propongo di segnalarlo con l’arte del giornalista, che è quella della narrazione dei fatti.
Le storie portatrici di un elemento testimoniale vivo le cerco nei quotidiani e nei periodici, nei social, prendendo appunti quando seguo i telegiornali, tra i colleghi giornalisti e tra gli amici. Le chiedo a medici e infermieri. Le chiedo anche a voi che leggete. Trascrivo le interviste a voce e in video che trovo nella Rete.
Vado sistemando le storie in un nuovo capitolo – il 22 – della pagina del blog intitolata «Cerco fatti di Vangelo», capitolo che ho chiamato «Storie di pandemia».
Hanno reagito
donando la propria vita
Mi interessa ogni vicenda vera e narrabile:
– di persone che sono morte lasciando un’ultima parola, magari in una chat o affidata a un’infermiera;
– di guariti che hanno sofferto il morso del COVID e ne hanno dato un racconto utile a chi l’ascolta;
– di scelte di volontariato compiute da uomini e donne impegnate nel lavoro ospedaliero, nel soccorso a domicilio, in tante attività confinanti con le varie facce dell’emergenza.
Sono convinto che non dovremmo trascurare nessuno dei «semi di bene» che lo Spirito continua a seminare nell’umanità, come ci ha ricordato Francesco con il paragrafo 54 di Fratelli tutti: «La recente pandemia ci ha permesso di recuperare e apprezzare tanti compagni e compagne di viaggio che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita» (Regno-doc. 17,2020,531).
I nostri morti sono tanti: 39.764 nel momento in cui scrivo. Da marzo a oggi se ne è andata, non riuscendo a respirare, una popolazione come quella della città di Macerata o di Rovereto. Ma poche, tra così tante vicende luttuose, hanno un contenuto testimoniale narrabile. Magari molte ce l’hanno per i familiari e per quanti hanno curato chi moriva: il modo di affrontare la morte e il testamento a esso affidato possono infatti essere comunicati anche con un sorriso, una lacrima, un movimento degli occhi. Qualche storia che si conclude con uno sguardo l’ho pure narrata, ma ho cercato spesso inutilmente un ultimo messaggio inviato con il telefonino, una parola di commiato.
Ci sono eccezioni e sono preziose. Di chi è guarito e poi è ricaduto, e nella fase della guarigione ha detto quello che stava passando.
Don Giuseppe Branchesi, 81 anni, parroco a Macerata, muore il 20 aprile all’ospedale di Civitanova, nove giorni dopo aver inviato ai parenti, via cellulare, un testamento che si conclude con questo saluto: «Chiedo perdono a tutti, e tutti perdono»; e ancora: «Grazie a Dio. Grazie a tutti. Benedico tutti».
Don Corrado Forest di Vittorio Veneto, 80 anni, confida al vescovo che gli telefona: «Non è male che anche qualche prete prenda questo tipo di malattia, per condividere quello che vivono molte altre persone». Un altro prete, Orlando Bartolucci di Pesaro, poi deceduto, da me interpellato in un momento che era parso di guarigione, aveva avuto parole simili di accettazione della malattia: «Anche se tutto è pesante, doloroso, non so per quale motivo spiritualmente mi sento “contento” di aver fatto questa esperienza. È l’aver in certo qual modo condiviso una storia con la tua gente».
Quelle soste dei feretri
davanti alle case dei parenti
Del missionario saveriano Giancarlo Anzanello (85 anni, di Treviso), morto in aprile all’ospedale San Francisco de Asís di Madrid, abbiamo saputo qualcosa dal diario di un prete spagnolo che lì assisteva i ricoverati: Ignacio Carbajosa, che ha pubblicato una forte memoria di quel suo ministero di misericordia, tradotta in italiano dall’editore Itaca con il titolo Testimone privilegiato. Diario di un sacerdote in un ospedale COVID.
Un paio delle mie storie narrano di famiglie che accompagnano una madre e una figlia al cimitero in regime di massima chiusura, con gli altri parenti costretti a seguire il rito della tumulazione dalla finestra. Riporto le parole di un parroco vicentino che racconta d’aver concordato con le agenzie funebri «una sosta del feretro davanti alle case dei parenti». Che tempo questo, nel quale sperimentiamo la sospensione delle messe con il popolo, l’impossibilità di accompagnare i morenti, la chiusura dei cimiteri.
Nelle terapie intensive si muore da soli e non c’è modo di mandare una parola alle famiglie. Oscar Vrtovec (Novara) infine si salva, ma nel momento di maggiore spavento chiede a un’infermiera di portare quella parola a moglie e figli: «Dite loro che gli ho sempre voluto bene». Messaggi simili hanno lasciato – morendo – altri due personaggi delle mie storie: un marito a una moglie e una moglie a un marito. Ed è senza la morte di nessuno una terza storia d’amore nella quale il marito si fa ricoverare in una casa di riposo per assistere lei, smarrita nell’Alzheimer, e ambedue finiscono in un reparto COVID e ne escono salvi.
Tra i guariti c’è lo scrittore napoletano Marco Perillo, 37 anni, che ha narrato la sua partita a scacchi con la morte nel profilo Facebook il 16 ottobre: «Sento il dovere di dire grazie a tutti i medici e agli infermieri del Cotugno per la loro dedizione. Grazie al Signore».
Pastori preti
e pastori medici
Perillo come tanti altri non sa dove abbia contratto il virus, Sergio Accardi invece ne è sicuro: 61 anni, medico di base a Zogno dal 1997, il suo duello di quattro mesi con la morte l’attribuisce al fatto d’aver continuato – a pandemia inoltrata – a visitare in ambulatorio e a domicilio: «Non volevo abbandonare i miei pazienti». Ed è appunto la solidarietà che ha portato alla morte, insieme ai medici degli ospedali, anche tanti medici di base.
I medici italiani che hanno «donato la vita» – come dice il papa nell’enciclica – erano a fine ottobre 186. Quel numero è sorprendentemente vicino a quello dei preti che sono morti avendo contratto il COVID nell’accompagnamento del gregge: a fine ottobre i soli diocesani – secondo Avvenire – erano 130, aggiungendo i religiosi ci si avvicina o forse si supera il numero dei medici. Con una delle più belle intenzioni proposte nelle messe del mattino a Santa Marta, quella del 3 maggio, domenica del Buon pastore (cf. la rubrica «La Parola in cammino», in Re-blog del 3.5.2020), Francesco ci invitò a contemplare congiuntamente «l’esempio di questi pastori preti e pastori medici».
Tra i guariti, i più narrano d’aver visto in faccia la morte e uno – Piero Perazzoli, di Piacenza – confessa di aver sperato di «varcare la soglia». Invece Roberto Timpano, 50 anni, di Lecco, racconta di «non avere mai avuto percezione della terribile gravità della mia condizione: l’ho realizzata dopo e mi sono anche accorto che c’era un esercito di gente che pregava per me».
Don Franco Amati, 70 anni, parroco milanese, si sente «vivo per miracolo» e poco dopo la Pasqua narra ai parrocchiani, per lettera, la sua discesa agli inferi e la lenta «risalita tra i vivi».
Ho raccolto altre narrazioni simili di 5 sacerdoti, di una decina di laici, di 3 vescovi: Antonio Napolioni (Cremona), Derio Olivero (Pinerolo), Calogero Peri (Caltagirone).
Il vescovo Napolioni così parla in una lettera post mortem a un suo prete che se ne era andato poco dopo che lui – il vescovo – era uscito dall’ospedale: «Scrivo per dirti quello che l’isolamento ci impedisce di dire ai nostri cari, in questa disumana maniera di morire». «Disumana»: detto da un vescovo.
Straordinaria stagione
di male e di bene
Più numerose d’ogni altro filone sono le storie del volontariato.
Michela Fanti (22 anni, di Treviso) appena laureata infermiera, e già disponendo di un altro lavoro, si offre per assistere i malati di COVID. Marta Ribul, volontaria internazionale bloccata in partenza per il Kenya, va infermiera all’ospedale COVID di Bergamo, dove compie 27 anni nel pieno dell’emergenza.
Abukar Aweis Mohamed è un infermiere somalo cittadino italiano da vent’anni: lascia a Signa, Firenze, la famiglia e va in soccorso dei colleghi della Val Camonica. Lo stesso fa un medico iraniano di 27 anni, immigrato di seconda generazione, Samin Sedghi Zadeh, che lascia la libera professione ed entra volontario nell’ospedale COVID di Cremona.
Tanti, per impulso di solidarietà, tornano a fare il medico o l’infermiere essendo in pensione, o avendo lasciato da tempo quel lavoro: chi era diventato scrittore, chi vignaiolo, chi si era fatto prete, o frate, o suora. Di storie così ne ho raccolte una decina.
Il volontariato ha trovato in questa straordinaria stagione di male e di bene impensate manifestazioni. Leonardo Castellazzi, 52 anni, di Codogno, medico rianimatore, fa l’esperienza della malattia e poi per due mesi, da casa, risultando positivo a 12 tamponi, passa i pomeriggi al telefono con i parenti dei malati in terapia intensiva. Accompagna in questo modo il lavoro dei colleghi e svolge – da volontario – il ruolo impagabile del collegamento tra i malati e le famiglie.
Vocazione cristiana
e vocazione d’uomo
Ogni tragedia è sempre anche commedia e questa doppiezza dell’umano l’abbiamo avvertita persino nei momenti più gravi della pandemia: due delle storie narrano di pazienti in terapia intensiva che al momento del risveglio, vedendo intorno persone scafandrate, hanno creduto d’essere rapiti e uno dei due ha fatto agli infermieri imperdibili proposte di riscatto: «Vi do un milione di euro».
Queste storie le chiamo «fatti di Vangelo», ma so bene che spesso chi li pone non lo fa in risposta alla vocazione cristiana, ma alla vocazione d’uomo. C’è un insegnamento nel fatto che, in profondo, le due vocazioni s’incontrino. È anche cercando quell’insegnamento che accanto ai semi seminati dall’una conviene adoperarsi a onorare quelli dell’altra.
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