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Attualità
Attualità, 8/2019, 15/04/2019, pag. 255

Pecchiamo ancora?

E come mai non ci confessiamo?

Luigi Accattoli

Mi chiamano ad Abano Terme per la Quaresima con un titolo urticante: «Pecchiamo ancora?». Accompagnato però da un sottotitolo ammorbidente: «I peccati sociali alla luce della Laudato si’». Mi trovo meglio con l’arduo titolo ed è soprattutto su quello che provo a narrare la conversazione che ne è venuta.

A differenza di quanto a volte leggo o sento, mi pare di non avere difficoltà a sentirmi peccatore tra peccatori. Lo dice sempre Francesco, lo dicevano i santi nei secoli. Ma uscendo dalla predicazione: io, tu, il terzo e il quarto che stanno a cena con noi, quelli che siamo nelle parrocchie, in che modo ci sentiamo peccatori? Abbiamo le parole per dirlo?

Ho svolto questa riflessione con i miei uditori. La percezione del peccato comporta un mezzo interrogatorio di sé a se stesso. Li ho invitati ad applicare al loro orto quello che io azzardavo per il mio.

Un perdono da chiedere a ognuno dei figli

La materia dell’esame è data dalle scene di vita attraversate nei tanti anni. È da quel dì che vengo parlando con me stesso come un coatto. A modo che il sonnambulo cammina per sé. È una conversazione da cristiano? Contiene cioè qualcosa che assomiglia a Cristo?

Poco. Quasi nulla. Forse 90 dei miei sentimenti e delle mie parole – 90 su 100 – non sanno di cristiano. Ci intendiamo se questa sproporzione la chiamo peccato?

Ho cinque figli e due nipoti. Mi chiedo che padre e che nonno io sia. Se lo chiedono tutti i nonni e i genitori.

Alle volte leggiamo che qualcuno all’ultimo giorno chiede perdono ai familiari per il mancato amore. Da qualche anno mi interrogo sulla possibilità di farlo al penultimo giorno. Cioè oggi. E cerco un perdono da chiedere a ognuno dei figli. Anche qui il nome di peccato non ci starebbe male.

Da mezzo secolo faccio il giornalista. Avrò scritto 10.000 articoli. Con quelli del blog andiamo sui 15.000. In tutti c’erano nomi di uomini e donne. Come li ho trattati?

Ci sono poi il caseggiato, la città. Quando Dio e la sua parola rimangono così incredibilmente celati alla comune umanità che è intorno a noi, che ne sarà del nostro nome di cristiani? Chi potrà dire d’esserlo, se intorno nessuno ci fa caso?

Se non ci sono giovani nelle chiese noi adulti ci chiameremo in causa, o ci limiteremo alla domanda scusante «che ci posso fare»?

Per me il peccato è dove non hai armi. Dove tocchi con mano la finitudine. Quando avverti che il mistero del male ti avvolge. Provo a ridirlo: c’è senso del peccato quando c’è avvertenza della grazia.

Il mistero del male l’avverto con chiarezza sia nel foro interno, quello che sopra chiamavo della conversazione con me stesso, sia in quello familiare o sociale. O ecclesiale. Da quando il cardinale Ratzinger ci ha donato le parole «quanta sporcizia nella Chiesa» (cf. Regno-doc. 9,2005,207ss) siamo da quelle aiutati a percepire il peccato della Chiesa di oggi e non solo quello del passato, sul quale già ci aveva ammaestrati papa Wojtyla. Il peccato della Chiesa di oggi «sorpresa in flagrante adulterio», come ha detto Francesco ai preti di Roma il 7 marzo.

Ma ad Abano mi attendevano anche sui peccati sociali, con riferimento esplicito alla Laudato si’. Mi dicevano a cena i preti della vasta parrocchia di San Lorenzo Martire: «Qui nessuno confessa qualcosa che riguardi l’ambiente, i rifiuti, l’uso delle energie, lo spreco del cibo».

Quei vecchi schemi per l’esame di coscienza

La responsabilità morale nei confronti del pianeta non è ancora entrata nella lingua della comunità cristiana.

Preparandomi all’appuntamento di Abano, ho scorso lo «Schema di esame di coscienza» che ogni anno – da quando c’è Francesco – viene proposto con il libretto della celebrazione penitenziale di Quaresima che il papa presiede in San Pietro e che quest’anno è caduta il 29 marzo. In esso non c’è nessun accenno alla «cura della casa comune».

Lo schema propone 30 domande o grappoli di domande, per un totale di un centinaio di spunti, anche efficaci nella formulazione: «La mia preghiera è un vero colloquio cuore a cuore con Dio o è solo una vuota pratica esteriore?»; «So dare del mio a chi è più povero di me?». C’è la domanda «ho pagato le tasse» ma non c’è il rispetto per «sora nostra madre terra».

Ho chiesto a persona che lavora alla Penitenzieria e ho realizzato che lo schema è lo stesso che figura in Appendice al Rito della penitenza che è del 1972. La versione italiana, con premessa del cardinale Poma presidente della CEI, è del 1974. Sono parole di mezzo secolo fa. E allora c’era già – nella nostra lingua – la responsabilità sociale, ma non c’era ancora quella ecologica.

Rispetto al vecchio schema, in quello delle celebrazioni bergogliane è stata aggiunta una sola ultima domanda che dice: «Ho omesso un bene che era per me possibile realizzare?». È la pedagogia del bene possibile cara a Francesco (Evangelii gaudium, n. 44: EV 29/2150; Amoris laetitia, n. 308, in Regno-doc. 5,2016,195s) e sono contento che sia stata inserita. Ma è tempo che tutto lo schema sia rifatto. La nuova creatura cristiana che la grazia fa crescere in noi abbisogna di nuovi discernimenti.

La Laudato si’  invita a «riconoscere i peccati contro la creazione» e su questo si appella all’autorità di varie conferenze episcopali e del «caro patriarca ecumenico Bartolomeo, con il quale condividiamo la speranza nella piena comunione ecclesiale» (n. 7; EV 31/587) – Bartolomeo che già nel 2002 firmava con Giovanni Paolo una dichiarazione congiunta sulla protezione del creato che parlava di «peccato», «pentimento», «conversione» (cf. Regno-doc. 13,2002,404) –.

Con le tasse m’aggiusto

Nell’enciclica Francesco riporta brani del patriarca. Ecco il più puntuale: «Che gli esseri umani distruggano la diversità biologica nella creazione di Dio; che gli esseri umani compromettano l’integrità della terra e contribuiscano al cambiamento climatico, spogliando la terra delle sue foreste naturali o distruggendo le sue zone umide; che gli esseri umani inquinino le acque, il suolo, l’aria: tutti questi sono peccati» (n. 8; EV 31/588).

Chiedo ai preti che mi chiamano per conferenze se ascoltano mai – in confessione – l’accusa di evasione fiscale o di mancato rispetto della natura. Mi dicono che a differenza del peccato contro la creazione, quello delle tasse viene nominato: «M’aggiusto», dicono i più per indicare aggiustamenti che avvertono meno corretti.

Credo sia una questione di tempi. Il dovere di pagare le tasse la predicazione ordinaria lo segnala almeno dal tempo del Vaticano II. Forse tra una trentina d’anni entrerà anche il dovere ecologico. La predicazione narrativa di Francesco potrebbe dare buoni spunti a chi volesse mettere mano a un aggiornamento degli esami di coscienza che tenga d’occhio la vita d’ogni giorno. Una volta ha usato l’espressione «peccato quotidiano».

Il papa che confessa e si confessa in San Pietro mostra un vero genio per la percezione della quotidianità in chiave evangelica. Dev’esserci un elemento autobiografico alla radice della sua attenzione preferenziale al sacramento della penitenza: «Il miglior confessore è di solito quello che si confessa meglio», afferma il 2 giugno 2016 in occasione del giubileo dei sacerdoti.

Metto qui un cestino degli spunti che è venuto offrendo negli anni. Li prendo da parole sue, anche se non do il rimando alla fonte.

Non chiudere la porta ai bisognosi: a chi ha fame, è straniero, malato, in carcere, in mare, nel deserto.

Non andare dalla cartomante

Non gettare la moneta al mendicante: quando aiuti un povero lo guarderai negli occhi, gli darai la mano, gli chiederai il nome.

Non scartare l’anziano: sia nelle decisioni della vita familiare, sia nella conversazione occasionale.

Non litigare davanti ai figli e non prendere i figli come ostaggi nelle liti.

Non spennare il prossimo tuo: mormorazioni e calunnie «preparano il brodo per distruggere il giusto».

Non prendere bustarelle: «Perché si incomincia magari con una piccola, ma è come la droga».

Non fare il cristiano ipocrita: per esempio quello che fa offerte alla Chiesa ma paga la domestica in nero.

Non andare dalla cartomante «che ti legge la mano e tu la paghi: questo è un idolo».

Non gettare il cibo avanzato. Non trascurare il grido dei poveri e del pianeta, punta su un altro stile di vita e vedi di educare i figli all’alleanza tra l’umanità e l’ambiente.

Non fare il bullo con i deboli, sia a scuola sia nella Rete. Questo del bullismo si presenta come un nuovo, intonso capitolo della pedagogia familiare e dei nuovi doveri del web.

Non dimenticare di pregare per i governanti: e tanto più lo dovresti fare quanto più ti apparissero inaffidabili. «Se voi trovate che non avete pregato per i governanti, portate questo in confessione» (omelia del 18.9.2017). Il richiamo alla preghiera per i governanti lo potremmo applicare allo stesso Francesco, ai vescovi e ai preti, a chiunque abbia un ruolo nella Chiesa.

«Non voglio bene a papa Francesco»

I confessori da me interpellati narrano di penitenti che confessano di non amare il papa, di non farcela a pregare per lui. E si sentono a disagio. Questo è un fatto nuovo per i cristiani comuni.

La non condivisione del papa – in verità – è un’artrosi cronica dei praticanti. In questa rubrica mi sono impegnato a fornire spunti d’approccio amichevole a Benedetto XVI che dedicavo – per tutti i suoi 8 anni – a chi non riusciva ad amare quel papa: ed erano tanti, proprio come oggi. Ma quegli antipatizzanti magari non praticavano granchè la confessione, mentre ora l’antipatia al papa fa la fila ai confessionali.

È facile capire il fatto: il papa che tiene ferme le parole e le cose disturba meno di quello che le smuove. Ma trattandosi di una percezione nuova del peccato, l’accusa «non amo il papa» non poteva non trovare spazio sotto un titolo che chiede se «pecchiamo ancora».

 

www.luigiaccattoli.it

Tipo "Io non mi vergogno del Vangelo"
Tema Francesco Cultura e società
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