Chiesa in Italia - Il tempo di un sinodo nazionale
Perché abbiamo chiesto e chiediamo un sinodo nazionale della Chiesa italiana? Di fronte allo sbandamento del paese, alle difficoltà non solo economiche ma anche sociali, culturali e morali, la Chiesa non può tacere. La Chiesa non è altrove. Esclusa ogni ripresa di partito cattolico o d’intervento politico diretto, sconsigliato il primo dalla storia e sbagliato per la Chiesa il secondo dal punto di vista dottrinale, serve tuttavia una grande mobilitazione nazionale di tutto il popolo di Dio su un piano propriamente ecclesiale.
Dopo essere intervenuti già nel 2015 in occasione del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze, indicando nello strumento di un sinodo nazionale della durata di almeno un biennio lo strumento più adeguato per recepire i criteri pastorali del pontificato di papa Francesco e ricollegarsi al paese sempre più separato, la rivista Il Regno ribadisce come quella proposta si sia fatta oggi necessaria, anzi urgente.
Un sinodo nazionale non si è mai fatto. Il pontificato di papa Francesco apre a questa possibilità pastorale; l’emergenza del paese lo esige. Un sinodo della Chiesa aperto a tutti, che affronti i grandi nodi culturali ed ecclesiali che oggi s’impongono di fronte alla perdita di un ethos collettivo, all’emergere di pulsioni disgregative della società, alla svolta antropologica in atto.
Quando, a conclusione del 5°Convegno ecclesiale nazionale della Chiesa italiana a Firenze (9-13 novembre 2015), commentammo circa l’opportunità di un sinodo nazionale per ridurre la reciproca distanza tra la Chiesa e il paese, recependo le linee pastorali del nuovo pontificato, espresse nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium (cf. Regno-att. 10,2015,690), i tempi erano già maturi. Oggi, a cinque anni dall’inizio del pontificato di Francesco, quel tempo si è fatto urgente.
Convocare, come Conferenza episcopale italiana, un’assemblea sinodale nazionale in questo momento storico della vita della Chiesa in Italia, significa riconoscere, interpretare e tematizzare questo tempo come un tempo decisivo, contraddistinto da un insieme di situazioni complessivamente critiche e inedite nelle quali si trova il nostro paese, e, conseguentemente, fare riferimento alla necessità di assumere distintamente, come Chiesa e come cristiani, una nuova responsabilità nella vita pubblica e una rinnovata testimonianza cristiana.
Definire questo tempo come un kairos, significa fare riferimento, nella situazione storica attuale, a una lettura ermeneutica dei «segni dei tempi» (cf. Mt 16,3; Lc 12,56). I tempi non sono semplicemente avversi o malvagi. E, pur in mezzo a nuove prove e profonde difficoltà (l’Italia è oggi un paese a rischio involuzione morale, sociale, economica e politica), il tempo che viviamo è sempre un tempo qualificato dalla vicenda salvifica di Gesù di Nazaret, e in virtù di quell’avvento ci è offerta la grazia di Dio.
La lettura dei «segni dei tempi» – giunta a più profonda maturazione storico-ermeneutica dopo il concilio Vaticano II – implica un maggiore approfondimento del linguaggio della fede e una conseguente maggiore assunzione di responsabilità e di libertà da parte di tutto il popolo di Dio.
Come è stato di recente ben espresso, i «segni dei tempi» costituiscono «quel complesso di eventi, esperienze di vita, insieme di valori, che una volta giunti a consapevolezza critica nel linguaggio di una determinata cultura storica, provocano la fede a ripensarsi e riformularsi nel linguaggio e nella testimonianza di vita, ad un tempo per maggiore fedeltà al Vangelo e per una sua più efficace comunicazione».1
Si tratta dunque di una categoria che presupponendo alcune verità teologiche (la rivelazione salvifica del mistero di Dio; il verbo di Dio incarnato, la signoria del Risorto che opera tramite il suo Spirito) e che provoca la Chiesa a svolgere nel modo migliore la sua missione.
Questo implica da un lato il ripensamento continuo del rapporto verità e interpretazione e dall’altro il giudizio sul rapporto tra storia e responsabilità. Se il primo punto chiede alla teologia e alla pastorale di pensare al fatto che la verità vive nelle sue interpretazioni – essa vive nella forma della sua dicibilità, senza che si possa tuttavia mai ridurre o identificare in un singolo linguaggio –; il secondo, forte di quella consapevolezza d’inesauribilità e di storicità, chiama tutta la Chiesa all’assunzione di una responsabilità concreta e rischiosa.
Alla luce della speranza del Cristo risorto, la comunità dei credenti non subisce semplicemente la storia, ma direi che quasi la prende per mano nell’attraversarne le contraddizioni, nel sopportarne i dolori e nell’apprezzarne le gioie.
Chiesto dal papa a Firenze
Nel suo discorso al V Convegno ecclesiale nazionale, papa Francesco incoraggiava la nostra Chiesa e tutti i cristiani, di fronte al cambiamento d’epoca in atto, contraddistinto da sfide nuove, «persino difficili da comprendere», non solo a non ritrarsi, ma a essere in modo nuovo testimoni e protagonisti anche del dibattito pubblico, della dimensione sociale e politica.
Così affermava il papa: «Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento (…) Voi dunque uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete chiamateli, nessuno escluso (cf. Mt. 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada» (cf. Mt 15,30).
In quella occasione il papa disse che gli piaceva una Chiesa inquieta, vicina ai dimenticati, agli imperfetti. Questa era l’indicazione dello stile ecclesiale da assumere.
Ma soprattutto lasciò una consegna per gli anni futuri: «In ogni comunità, in ogni parrocchia, e istituzione, in ogni diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento dell’Evangelii gaudium».2 Questo era il metodo.
In «modo sinodale», cioè attraverso un concorso di popolo, credo si debba avviare una riflessione sulla Chiesa in Italia in questo tempo. Sulla realtà della nostra Chiesa nella realtà della nostra storia. Porre il tema del futuro della Chiesa in Italia significa porre il tema del futuro della civiltà italiana.
Nella sua introduzione al recente Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana, anche in vista di una decisione sui prossimi orientamenti pastorali della Chiesa italiana, il presidente Gualtiero Bassetti ha parlato della ricerca di un metodo nuovo che la Chiesa deve adottare, affermando: «Le nostre decisioni devono seguire un metodo, supportato da un’idea forte e da continue verifiche, da un luogo di elaborazione culturale che non sia semplicemente una vetrina per proporre se stessi. Ci serve metodo anche per utilizzare al meglio le risorse materiali e finanziarie che i cittadini e i fedeli mettono a disposizione della Chiesa; ci serve metodo per interagire con le istituzioni, in modo distinto e collaborativo; ci serve metodo per guardare avanti con fiducia e impegno. Non possiamo, infatti, limitarci a rincorrere l’attualità con comunicati e interviste; non possiamo perdere la capacità di costruire autonomamente la nostra agenda, aperti a ciò che accade – a partire dalle emergenze che bussano ogni giorno alla porta – ma fedeli a un nostro programma pastorale, che è poi il Vangelo di nostro Signore, incarnato in questo tempo».
Credo che questa preoccupazione, del tutto condivisibile, debba essere sviluppata coerentemente fino in fondo.
Una situazione inedita
Quanto il cambio d’epoca sia profondo, a livello mondiale e non solo in Italia, appare sempre più evidente.
Il lungo processo di secolarizzazione che ha attraversato, determinandola, l’intera modernità, e che da oltre mezzo secolo informa quella che con insufficiente definizione chiamiamo postmodernità, è giunto alle forme più radicali con il processo d’individualizzazione del soggetto, accelerato dalla nuova rivoluzione comunicativa, soprattutto tra le nuove generazioni, mostrando un io ipertrofico e frammentato, vitalistico e fragile a un tempo,3 che obbedisce al comandamento: io, qui, ora.
Vengono meno sia la relazione col prossimo sia la dimensione del tempo futuro. È l’affermazione di una libertà che se non ritrova il senso della gratuità e della relazione finisce per consumare il soggetto e autodistruggersi.
«Il pensare postmoderno – ricordava il card. Martini ancora nel 2008 – è lontano dal precedente modo cristiano platonico di giudicare la realtà. In cui erano dati per scontati la supremazia della verità e dei valori sui sentimenti, dell’intelligenza sulla volontà, dello spirito sulla carne, dell’unità sul pluralismo, dell’ascetismo sulla vitalità».
Questo è il mondo – proseguiva Martini – «nel quale prevale la sensibilità, l’emozione, l’attimo. L’esistenza umana diventa un luogo e uno spazio nel quale tutto il possibile è immediatamente reale. E tutto è legittimo. È una reazione contro una mentalità eccessivamente razionale. La letteratura, la musica e le nuove scienze umane rivelano come molte persone non credono più di vivere in un mondo guidato da leggi razionali, dove la civiltà occidentale è un modello da imitare».
Si tratta di una svolta antropologica che fa mostra di nuove forme di relativismo, come ha ripetutamente argomentato Benedetto XVI, e che fa seguito, anche causalmente, al precedente tempo delle ideologie totalitarie, con la loro assoluta pretesa veritativa: dal progressismo positivista, al liberismo economico, ai fascismi, al comunismo, e le cui contraddizioni irrisolte, tuttavia, rimangono ancora pesantemente dentro la nostra storia.
Non ne è seguita solo la perdita di modelli narrativi condivisi e il frantumarsi delle diverse concezioni. Non c’è stata solo una reazione relativistica all’assolutismo precedente. C’è stata una perdita di storicità della storia. C’è stata una crescente reazione a ogni forma vincolante e di legittimazione. C’è stata la critica aprioristica verso ogni forma di autorità, si trattasse della scuola, della scienza, della medicina, delle istituzioni politiche.
I grandi cambiamenti geopolitici hanno fatto il resto. La perdita progressiva della supremazia statunitense (non adeguatamente sostituita dagli stessi Stati Uniti con una diversa struttura istituzionale condivisa); la mancata evoluzione politica dell’integrazione europea (oggi posta in questione da nazionalismi, secessionismi e isolazionismi vari) hanno mancato al compito storico di offrire una guida equa e un tentativo di regolamentazione al processo di globalizzazione. Si pensi al processo di finanziarizzazione dell’economia, al monopolio della ricerca tecnologica e al grave incremento delle disuguaglianze e della povertà.
Ne è scaturita una crisi profonda della democrazia social-liberale, che sembra non reggere l’urto dei conseguenti cambiamenti geopolitici e della globalizzazione. Assistiamo alla fine di quella intrinseca interdipendenza fra democrazia e libero mercato. Non a caso il modello totalitario cinese viene considerato da molti, soprattutto nelle aree più povere, come il più efficace e di fatto come sostitutivo della democrazia politica. Si potrebbe sintetizzare dicendo che il processo di globalizzazione, ridotto nella pura forma del neo-liberismo finanziario, ha fallito la possibilità di una guida democratica, consumando gli Stati Uniti e l’Europa proprio nelle ragioni fondamentali della loro egemonia culturale.
L’Italia non è altrove. Essa attraversa una delle fasi più difficili della sua storia, contrassegnata su un piano istituzionale dalla crisi del modello democratico e del sistema politico; su un piano economico dall’impoverimento di fasce significative di popolazione, soprattutto i giovani, soprattutto al Sud e nelle periferie (urbane e geografiche); su un piano sociale dalla demoralizzazione e dall’aumento della sfiducia che disgrega la società, le sue forme associative e i suoi corpi intermedi; su un piano antropologico dal cambio culturale in atto che celebra il presente come assoluto.
Per un riorientamento della Chiesa
Quello che si è consumato negli ultimi trent’anni è la crisi profonda delle élite e il fallimento del processo di formazione di una nuova classe dirigente. Ogni forma di autorità, non solo politica, è stata messa in discussione Ma questo fallimento si è consumato sia sul piano del governo dei tecnici, sia sul piano della definizione politica di un centro-sinistra postcomunista. La crisi delle élite si è consumata nel campo culturalmente egemone del centro-sinistra, trascinando con sé le forme politiche che esso aveva assunto. Il fallimento di quel tentativo riformista ha come logorato ogni ipotesi di riformismo. Il che ha lasciato spazio, di fronte all’offerta politica di nuovi soggetti, pronti a cavalcare e a generare paure (veri imprenditori della sfiducia) e a promettere l’irrealtà, alla crescita di una fase irrazionale e reazionaria che mina il paese in sé stesso e il suo ruolo internazionale. Senza un disegno di riforme istituzionali e politiche adeguate, senza opposizione democratica, senza soggetti alternativi, la crisi politica e istituzionale in atto diverrà crisi sociale e di valori, oltre che economica. E’ a rischio l’etica civile del nostro paese.
La Chiesa italiana non può rimanere assente o in disparte. La Chiesa non può tacere. Ha una responsabilità storica quanto all’annuncio, all’educazione, all’edificazione della fede cristiana e alla promozione umana.
Senza entrare direttamente in politica o formulare opzioni di parte o creare direttamente o indirettamente un proprio strumento partitico (il che non fu mai fatto, neppure con la DC), perché quel tempo è storicamente finito, non vi è lo spazio politico e non vi sono i soggetti adeguati, essa può chiamare a raccolta tutte le coscienze, innanzitutto quelle dei credenti, invitandoli a una nuova stagione di responsabilità personale attorno ad alcuni valori comuni. Si tratta di ricreare anzitutto un ethos condiviso.
È nel compito e nella libertà della Chiesa quello d’intervenire sul piano dell’edificazione della coscienza del singolo, della diaconia della carità e della cura culturale della fede. In questo alla Chiesa spetta, per differenza evangelica, di esprimersi dal centro dell’esperienza comune degli uomini in merito alle forme dell’oggettività sociale, alla censura nei confronti delle libertà, in difesa dei valori fondamentali.
Se la figura della Chiesa rispetto alla politica è quella di una alterità amante, che mantenendo la propria distinzione tuttavia non solo non può essere indifferente, ma non può fare a meno di condividere le sorti delle persone, quella del singolo cristiano (anche attraverso gli strumenti che esso intende liberamente e autonomamente animare) è quella di una partecipazione critica alla vita della città democratica. Se non è più tempo di un partito cattolico (non vi sono ragioni né religiose, né ideologiche, né storiche per farlo) è certamente tempo di una nuova stagione d’impegno.
Molte sono le modalità. Dalla partecipazione riconosciuta e riconoscibile dei cattolici nell’ordine politico, all’interno dei diversi soggetti politici, alla costruzione di reti di comunicazione, di luoghi di analisi, di discussione tra gruppi, movimenti e associazioni di cattolici che agiscono singolarmente e in modo organizzato nell’ordine sociale, alla costituzione di strumenti d’intervento culturale.
Occorre ripartire come Chiesa e come cattolici dalla società civile, costruendo nuove presenze organizzate là dove si presentano nuove emergenze e nuovi problemi. Un nuovo impegno politico dei cattolici, una nuova presenza civile è possibile, anche al di fuori dello strumento del partito cristiano.
Strumento di popolo
Ci si può legittimamente chiedere se lo strumento sinodale sia quello più idoneo e pertinente per affrontare il tema del futuro della Chiesa in Italia. Circa la sua idoneità siamo incoraggiati dal lungo approfondimento dottrinale che è stato fatto sullo strumento sinodale, sia sul piano del suo statuto, sia sul piano del metodo.
Come ribadito recentemente dalla Commissione teologica internazionale, papa Francesco, «nel solco tracciato dal Vaticano II e percorso dai suoi predecessori, sottolinea che la sinodalità esprime la figura di Chiesa che scaturisce dal Vangelo di Gesù e che è chiamata a incarnarsi oggi nella storia, in fedeltà creativa alla Tradizione».
Inoltre, «in conformità all’insegnamento della Lumen gentium, papa Francesco rimarca in particolare che la sinodalità “ci offre la cornice interpretativa più adeguata per comprendere lo stesso ministero gerarchico”4 e che, in base alla dottrina del sensus fidei fidelium,5 tutti i membri della Chiesa sono soggetti attivi di evangelizzazione.6 Ne consegue che la messa in atto di una Chiesa sinodale è presupposto indispensabile per un nuovo slancio missionario che coinvolga l’intero popolo di Dio».7
Sempre la Commissione teologica al n. 22 ricorda come l’apostolo Paolo, alla luce della sinassi eucaristica, evochi l’immagine della Chiesa quale corpo di Cristo, a esprimere sia l’unità dell’organismo sia la diversità delle sue membra. Come infatti nel corpo umano tutte le membra sono necessarie nella loro specificità, così nella Chiesa tutti godono della stessa dignità in virtù del battesimo (cf. Gal 3,28; 1Cor 12,13) e tutti devono portare il loro contributo per adempiere il disegno della salvezza «a misura del dono di Cristo» (Ef 4,7).
«Tutti, dunque, sono corresponsabili della vita e della missione della comunità e tutti sono chiamati a operare secondo la legge della mutua solidarietà nel rispetto degli specifici ministeri e carismi, in quanto ognuno di essi attinge la sua energia dall’unico Signore (cf. 1Cor 15,45)».
La stessa Commissione porta i convegni nazionali della CEI quali esempi di processo di sinodalità delle Conferenze episcopali (cf. n. 90). Più recentemente anche la costituzione apostolica sul sinodo dei vescovi, Episcopalis communio,8 accoglie il tema della consultazione del popolo di Dio (cf. art. 6, § 1 del Regolamento), sia attraverso gli istituti tradizionali emersi nella storia della Chiesa, sia aprendo ad altre iniziative ritenute opportune.
Ricostituire un legame
Circa l’idoneità, le modalità e l’efficacia di un tale strumento, credo che si possa assumere la lezione metodologica sia delle Conferenze generali dell’episcopato latinoamericano, sia quella della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (mi riferisco agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso), quando per la stessa costruzione dei programmi e dei documenti pastorali avevano individuato lo strumento del dibattito interno alla comunità ecclesiale e poi l’esposizione pubblica, costruendo in tal modo in una forma para-sinodale i contenuti e il consenso sui contenuti stessi di ogni singolo progetto, all’interno e all’esterno della comunità.
Credo che impegnare le comunità cristiane in un dialogo aperto a tutti, a cominciare dai quartieri e dalle parrocchie, dalle associazioni ai movimenti, passando poi alle diocesi e infine a una grande assemblea nazionale, lungo un biennio di svolgimento, consenta di creare anzitutto un processo di auto-evangelizzazione e di condivisione tra i credenti dei punti centrali della fede e dei valori evangelici; di ricostituire un legame, in parte spezzato, tra istituzione ecclesiastica e popolo di Dio; di riattivare e attivare forze vecchie e nuove del nostro cattolicesimo che oggi sono in parte sopite; di aprire, anzi, spalancare le porte delle nostre Chiese per accogliere nuovamente parti del popolo di Dio che oggi sono distanti; di andare noi lungo le strade, ai crocicchi, e avviare una nuova stagione di consapevolezza, di responsabilità e di testimonianza cristiana nel nostro paese.
Ciò che è importante in un tale processo non è solo il suo esito finale, ma la cosa in sé, la mobilitazione (che si fa testimonianza attiva) del più ampio grado possibile di energie, attorno a contenuti che vengono riannunciati e ricompresi. Un percorso d’evangelizzazione (interno ed esterno) che si fa testimonianza e dialogo sociale sui valori fondamentali inderogabili.
Nella sua allocuzione del 17 ottobre 2015, nel 50o di istituzione del Sinodo dei vescovi, papa Francesco aveva affermato: «Una Chiesa sinodale è come un vessillo innalzato tra le nazioni (cf. Is 11,12) (…) come Chiesa che cammina insieme agli uomini, partecipe dei travagli della storia» (EV 31/1676).
Il tema dovrebbe recare con sé la sapienza biblica, la forza impegnativa della Parola ed evocare l’urgenza della responsabilità, secondo l’ammonimento di Pietro: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (cf. 1Pt 3,15).
Gli effetti educativi (auto-educativi e d’annuncio), il ri-apprendimento dottrinale di quanti saranno coinvolti è il primo guadagno, poi la conoscenza dei nuovi problemi e delle nuove questioni che oggi sono divenute urgenti, infine l’effetto di consenso complessivo: tutte queste cose possono recare un rilancio di testimonianza e presenza della Chiesa in Italia.
Su un piano nazionale la sintesi locale va assunta e ricompresa fino a un lavoro di condivisione finale. In capo a un’assemblea nazionale più ampia e impegnativa di quelle sin qui conosciute. Da uno sviluppo come questo, da una partecipazione nuova e diffusa di tutto il popolo di Dio in un momento difficile per la Chiesa e il paese potrebbero scaturire per la prima volta gli orientamenti pastorali dei vescovi italiani per il prossimo decennio.
Gianfranco Brunelli
1 G. Ferretti, Il criterio misericordia. Sfide per la teologia e la prassi della Chiesa, Morcelliana, Brescia 2017, 106.
2 Francesco, Discorso ai partecipanti del V Convegno nazionale della Chiesa italiana, 10.11.2015; EV 31/1862.
3 Cf. C. Taylor, Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Feltrinelli, Milano 1993.
4 Francesco, Discorso in occasione della commemorazione del 50° anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi: AAS 107(2015) 1141; EV 31/1668.
5 Cf. Commissione teologica internazionale, Il «sensus fidei» nella vita della Chiesa, 17.1.2014, n. 91; Regno-doc. 19,2014,650.
6 Cf. Francesco, es. ap. Evangelii gaudium sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, 24.11.2013, n. 120: AAS 105(2013) 1070; EV 29/2226.
7 Commissione teologica internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, n. 8; cf. Regno-doc. 11, 2018, 329.
8 Cf. Francesco, costituzione apostolica Episcopalis communio, 15.9.2018; cf. Regno-doc. 17,2018,528.