La prigione è un convento
Storie di carcerati che si fanno scrittori
La prigione è metafora di tante cose e sul pianeta c’è la cella del monaco e quella del carcere: parto da questo doppione per dire come anche il carcere possa portare lontano. Racconto di tre detenuti che di strada ne hanno fatta e uno è arrivato a farsi monaco.
Il doppio della cella m’attirava da quando alla vigilia del matrimonio, ero andato con lei a Camaldoli a prendere la benedizione di don Benedetto Calati: «Ci sarebbe la clausura ma venite tutt’e due lo stesso. La cella del monaco è per la libertà, non è una prigione».
La cella che si sdoppia in carcere e in chiostro ancora di più m’attira da quando, otto anni addietro, presi a occuparmi di volontariato carcerario con la San Vincenzo de’ Paoli. Faccio parte della Giuria del Premio Castelli e ogni anno andiamo in un carcere diverso per la premiazione. Nel 2014, a Bari, mi capitò d’intervistare Massimiliano Taddeini, vincitore del primo premio, che così motivò la decisione di narrare la sua storia: «Il carcere è come un convento: tra quattro mura hai tempo per cercare dentro».
È quello che è successo a tanti partecipanti al concorso, come ho potuto vedere nei 2.000 testi, all’incirca, che ho letto fino a oggi. Cercando dentro, qualcuno si fa scrittore e qualcuno – addirittura – scopre l’orazione mentale.
Inattesa utilità del silenzio comandato
È il caso del primo libro che suggerisco a chiunque si occupi di carcere o di meditazione: Una via nel deserto. Commento alla Regola di san Benedetto per chi è in carcere (LEF, Firenze 2019, pp. 282). L’autore, James Bishop, che fu in carcere negli USA per dieci anni a seguito di gravi reati, appartiene oggi alla Comunità mondiale per la meditazione cristiana ed è un oblato benedettino.
Come la parola «cella», anche la parola «prigione» può avere il suo doppio: «Attraverso la Regola e la meditazione – scrive Bishop – sono arrivato a capire come abbia vissuto in una prigione autoimposta per molti anni e come, dopo essere stato spedito in una prigione vera, mi sia sentito più libero».
Secondo Bishop, per più aspetti il carcere è «simile a un monastero»: per lo «stretto contatto» tra gli abitatori dei due luoghi, perché in ambedue «la vita è molto inquadrata», perché là e qua vi sono momenti di silenzio «comandato» che aiutano a condurre «il lavoro su di sé», perché il detenuto è «povero di tutto» come un monaco. Dalla povertà il monaco che fu carcerato trae una metafora alta: «Quando entriamo a far parte di questo mondo non possediamo niente e anche dopo che ce ne siamo andati non possediamo niente».
Altre più puntuali somiglianze il nostro le segnala tra la «cella d’isolamento» (che sperimentò per sette mesi) e la solitudine che puoi raggiungere con la meditazione. Tra la prigione e la «scomunica» della Regola benedettina, cioè la separazione del monaco ribelle dalla comunità: «Chi è in prigione è scomunicato dalla società». Tra la scuola d’umiltà dell’una e dell’altra, che procedono ambedue facendo tutti uguali già nel vestito, nel taglio dei capelli, nel cibo.
Ho letto con emozione le pagine del monaco che viene dal carcere. L’intento di rivolgersi in primo luogo «a chi è in prigione» l’induce a forti semplificazioni e a qualche ingenuità di storia, di Bibbia e di liturgia, che però non intaccano la convincente serietà con cui accoglie la vocazione cristiana e se ne fa apostolo.
Ho ammirato questo fratello che si presenta come «un prigioniero perdonato», con un motto che ricorda quello di «peccatore perdonato» di papa Francesco.
Per fortuna un giorno vennero ad arrestarmi
Ho trovato rispondenza tra il cammino meditativo che lo porta ad amare il silenzio della cella e il racconto del percorso compiuto dal monaco a me coetaneo Enzo Bianchi: «Anch’io ho conosciuto la cella come luogo di reclusione ma poi, perseverando, l’ho scoperta come luogo in cui si impara ad abitare con sé stessi» («Il cielo in una cella», su La Stampa – TuttoLibri, 31.7.2004).
Ho lodato Bishop quando commenta con la sua vicenda il Salmo 119 («Bene per me se sono stato umiliato»): «La maggior parte delle persone che sono in prigione non avrebbe interrotto i propri crimini se non fosse stata rinchiusa: è stato così anche per me».
Posso attestare che tante storie che i detenuti inviano al nostro concorso di scrittura contengono l’affermazione: «Per fortuna un giorno vennero ad arrestarmi».
Il mio apprezzamento maggiore va infine alle pagine che trattano della riparazione del male: «Ci sono persone vittime del mio crimine. Non posso dare loro alcuna restituzione. La cosa migliore che posso fare è aiutare in generale gli altri: in questo modo è possibile generare più bontà nel mondo di quanta ne abbiamo ricevuta. Forse un giorno il bilancio tornerà in pari».
Informandomi sulla meditazione in carcere ho scoperto che è un’arte insegnata con buoni risultati sia da monaci cristiani sia da buddhisti. «Non c’è poi molta differenza tra la vita cenobitica e la vita in prigione», afferma in un’intervista Dario Doshin Girolami, che dirige il Centro Zen l’Arco di Roma e tiene corsi di meditazione nel carcere di Rebibbia.
La mia vita rubata da faide e ’ndrangheta
Bishop l’ho letto ma non l’ho incontrato. Il secondo autore che segnalo l’ho invece incontrato e l’ho avuto accanto a tavola: si chiama Carmelo Gallico, è il vincitore del primo premio dell’edizione di quest’anno del Premio Castelli di cui ho già parlato (cf. Regno-att. 18,2019, 575s). Ha avuto l’autorizzazione a essere presente nel carcere di Matera al nostro appuntamento annuale e mi ha dato un suo libro: Senza scampo. La mia vita rubata da faide e ’ndrangheta (Edizioni Anordest, Lancenigo [TV] 2013, pp. 251).
Gallico – che è stato a più riprese in carcere per un totale di 16 anni e che ora è agli arresti domiciliari in attesa di giudizio – si dice innocente e vittima incolpevole d’essere nato in una famiglia di ’ndrangheta (i Gallico sono di Palmi), con diversi familiari uccisi o variamente condannati: «Ma il modello mafioso è stato sempre da me avversato e mai perseguito». Entra ed esce dal carcere da quando aveva 25 anni e ora di anni ne ha 56. È autore di più volumi e vincitore di diversi premi. Ha una scrittura asciutta, forte.
Bishop distingue tra «prigione autoimposta e prigione vera». Gallico tra «prigioni di fatto» e «prigioni reali». Come Bishop trova la libertà nella meditazione, Gallico la scopre nella scrittura: «Avevo finalmente scoperto il modo di sconfiggere il carcere. Con le mie parole aprivo brecce nelle sue spesse mura, parlavo alla gente, suscitavo emozioni, creavo ponti con il resto del mondo. Ero vivo. Quella era la mia vera libertà».
Quella di «sconfiggere il carcere» è per Carmelo l’impresa della vita. Nel teatro del carcere di Matera gli abbiamo chiesto di leggere il testo premiato ed egli, a premessa della lettura, ha confidato la sua utopia del superamento del carcere, un’utopia che i volontari carcerari condividono con i detenuti, nella speranza che un giorno la privazione della libertà sia concepita come una misura estrema e d’emergenza, da limitare il più possibile.
Se la luce della ginestra entra nella tua cella
Questo sogno a Matera il detenuto e scrittore Carmelo Gallico l’ha così proposto: «Privare qualcuno della libertà è peggio che infliggergli la morte, e l’uomo ha scelto di costruire invalicabili muri dentro cui imprigionare altri uomini rei di un qualche male. Questa concezione del carcere è espressione dell’uomo che si fa lupo per l’uomo, perché il carcere, immaginato come luogo di punizione e relegazione del male, è esso stesso prodotto e strumento del male, non la sua soluzione, ma la sua perpetuazione. Per dare risposte e soluzioni al male, l’uomo dovrà imparare ad attingere dalla parte più nobile della propria umanità, e libero da primitivi istinti di violenza, non avvertirà più il bisogno di mettere uomini in catene».
Il primo autore che segnalavo trovava la libertà nella meditazione. Il secondo nella scrittura. Il terzo la trova nella lettura e nella scrittura tra loro contaminate. Si tratta di Carmelo Guidotto, autore con Carmela Cosentino di un epistolario pubblicato con il titolo La luce della jnestra. Riflessi di umanità dal carcere (Ancora, Milano 2019, pp. 249). Jnestra in siciliano è ginestra e il titolo è preso da un brano dove Carmelo torna a sentirsi «libero dentro» contemplando una foto con «una macchia di jnestra bellissima» che gli ha mandato Carmela.
Carmelo Guidotto è condannato all’ergastolo, Carmela Cosentino è un’assistente sociale che gli diviene amica di penna. Lei gli porta e spedisce libri, narra concerti e mostre. Lui si giova di ogni appiglio: «Io sono onnivoro, leggo di tutto. Solo leggendo si va fuori di qua».
In Carmelo – che fa anche il volontario nella biblioteca del carcere – la scrittura fluisce naturale come figlia primogenita della lettura. «Scrivi, scrivi» l’incoraggia lei. E lui asseconda, anzi precorre l’invito: «Non faccio altro che leggere e scrivere», confida trasognato. E confessa che scrivendo sempre si sente «più leggero».
Sono stato sempre fuori con la mente
È anche grazie al carteggio con Carmela che alla domanda della direttrice «se io mi vedevo fuori», il nostro può rispondere: «Io sono stato sempre fuori con la mente». Quel carteggio – come scrive nella Postfazione il curatore del volume, Giuseppe Trevisi – «è un percorso di educazione alla virtù della fiducia alimentata dalla speranza e fondata sull’amicizia, che potremmo anche chiamare riconoscimento della comune umanità».
Carmelo è sorpreso dai «cambiamenti vissuti nel carcere» e la sua conclusione è vicina a quella del detenuto che si è fatto monaco: «Se non fossi qui dentro avrei mai avuto la fortuna di aprire la mia mente?».
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