Come svegliare una parrocchia
E portarla all’uscita
Conoscendomi come animale da parrocchia, un parroco romano di nuova nomina mi chiede: «Che posso fare per svegliare questa comunità? Qui mi sembrano interessati solo all’orario delle messe».
In fondo alla chiesa di Santa Maria Liberatrice al Testaccio, che è affidata ai salesiani, trovo una cassetta postale con questo invito: «Collaborate con la comunità parrocchiale suggerendo proposte, richieste, osservazioni». La cassetta è lì da tanto ma il parroco – che è lì da un anno – dice che, a oggi, vi ha trovato un solo messaggio che sollecitava i partecipanti alla messa a non fermarsi in fondo alla chiesa: quella è grandiosa, neogotica, a suo modo splendida e con tanti banchi.
Che cosa chiedi
e che potresti fare
Un altro parroco romano, del Sacro Cuore immacolato di Maria ai Parioli, ha svolto un analogo sondaggio distribuendo un questionario che poneva, in modo articolato, le stesse domande: che cosa chiedi, che cosa potresti fare. Qui le risposte ci sono state, ma poche: 43 su una popolazione che il Vicariato stima in 9.000 persone.
Che può fare un parroco, o un consiglio pastorale parrocchiale, o che possono inventarsi i due insieme per svegliare un giro di praticanti sempre più anziani e sempre meno numerosi? Per attivare una partecipazione meno passiva? Per aiutare i parrocchiani a passare da praticanti a credenti? Da praticanti i sacramenti a praticanti la Parola, i sacramenti, la carità?
Il mese scorso, in questa rubrica, recensivo le Carte romane di Enrico Bartoletti (EDB, Bologna 2016) e segnalavo un appunto del 26 ottobre 1973 dove batteva su questi chiodi: «Il necessario passaggio da una Chiesa di praticanti a una Chiesa di credenti. La scelta prioritaria dell’evangelizzazione come mezzo indispensabile per il passaggio a un cristianesimo di convinzione» (cf. Regno-att. 20,2018, 639s). Sono i chiodi sui quali oggi batte Francesco.
Bartoletti il lungimirante sosteneva che, senza quel passaggio, la nostra Chiesa avrebbe perso la dimensione di popolo. Infatti, il passaggio non è avvenuto e quella dimensione la stiamo perdendo.
Ho posto la domanda sul che fare per smuovere una parrocchia abitudinaria ad altri parroci, di Roma e di fuori, e spesso la risposta è stata: questa è una comunità attiva, con buona partecipazione. Mio rilancio: non chiedo come muovere chi è attivo, ma la massa dei passivi. Lettori belli: avete qualche idea? Conoscete iniziative come quelle che ho riferito? Che ne dite di un indirizzario di posta elettronica che permetta al parroco di rivolgersi a tutti i parrocchiani con i suoi messaggi? Di un sito parrocchiale interattivo che potrebbe anche invogliare i ragazzi del dopo cresima a dare una mano? Della ricerca di un parrocchiano che faccia da terminale in ogni caseggiato? Come attivare la catena dei motivati che si fanno motivanti?
Torno sul questionario della parrocchia dei Parioli, al quale accennavo sopra. Padre Giuseppe Hernandez, dei missionari clarettiani, che l’ha lanciato, nel numero di dicembre del bollettino La Corda così ne presenta lo scopo: «Promuovere una dinamica di partecipazione e corresponsabilità che ci permettesse di conoscere meglio la mentalità, i desideri e i bisogni dei fedeli, ma anche ci aiutasse a progettare l’azione pastorale e a individuare le persone che potrebbero collaborare».
Trovo buona l’idea. Girando le parrocchie, sento lamentare che le persone attive sono «sempre le stesse». Spesso sono tante e bene attive, ma pare impossibile ampliare la cerchia.
Dalla preservazione all’evangelizzazione
Dal sondaggio della parrocchia pariolina non vengono – se ho letto bene – prospettive di ampliamento: la maggioranza delle richieste («che desideri») e delle disponibilità («che potresti fare») riguardano i sacramenti e soprattutto le messe domenicali: le omelie siano brevi, ci sia silenzio in chiesa, non vi entrino cani, mi impegno a essere puntuale ma siano puntuali anche i sacerdoti e disponibili alle confessioni.
I pochi che offrono e chiedono in tema di catechesi, Bibbia, carità, animazioni per bambini e ragazzi, mensile parrocchiale, appartengono alla cerchia dei già attivi. Il parroco vede nelle risposte una «tendenziale identificazione della vita cristiana con la pratica sacramentale», con scarsa attenzione ad «altri compiti della Chiesa che comportino la collaborazione dei fedeli». Ovviamente si rallegra – e io con lui – che «la metà delle persone che hanno risposto offrono la loro preghiera».
Papa Francesco è citato un paio di volte nelle risposte, ma solo in riferimento alla brevità delle omelie. Non per la «Chiesa in uscita», per la pastorale dell’inclusione, per l’accoglienza degli scartati.
Ma il quartiere Parioli non è un’eccezione: mi pare che un po’ ovunque il sentimento dominante sia quello della «preservazione» dell’esistente invece che quello dell’evangelizzazione, per dirla con parole di Francesco (cf. Evangelii gaudium, n. 27; EV 29/2133). La preservazione dell’esistente non è da buttare, lo so: l’attaccamento dei praticanti alla domenica, alle chiese e alle messe è la riserva aurea che ci viene dal passato, ma non basta. Se non si realizza l’uscita, quel tesoro affonderà con la nave.
Mi piacerebbe che la chiesa
rimanesse sempre aperta
Il papa ha chiesto che tutte le parrocchie d’Europa – «incominciando dalla mia diocesi di Roma» – ospitino una famiglia di «profughi» e a Roma l’ha fatto 1 parrocchia su 10. Altrove anche meno. Ha chiesto che i romani – clero e laici – gli fornissero per lettera indicazioni in vista della scelta del «nuovo vicario»: e pare che abbia avuto un 150 risposte. Non è stato mai detto il numero a motivo della sua vergognante esiguità. Il risveglio è arduo sia quando si vorrebbero accogliere i rifugiati, sia quando si immagina un nuovo modo di scegliere i vescovi.
Uno dei 43 che hanno risposto al questionario pariolino batte su un chiodo bergogliano, pur senza citare Francesco: «Mi piacerebbe che la parrocchia rimanesse sempre aperta per dare la possibilità a ciascuno di sostare davanti al Signore». E osserva che tale segno della chiesa «sempre aperta» potrebbe costituire un «riferimento per tutte le parrocchie».
Per questa puntata della rubrica ho chiesto aiuto ai visitatori del mio blog – come avevo già fatto altre volte – e ho mandato interpellanze per posta elettronica. Sul segno della chiesa aperta ho avuto rispondenze puntuali. Don Ivan Maffeis, portavoce della CEI, che ogni fine settimana torna alla parrocchia trentina della quale è restato titolare, considera feconda – per fare viva la comunità – la costruzione di «un gruppo che abbia cura della chiesa, che l’apra al mattino e la chiuda alla sera; che prepari le letture, i canti, l’accoglienza».
Così la strada diventa parrocchia
Il mio parroco romano, don Francesco Pesce, invita a innescare un’osmosi tra la piazza e la chiesa: «Si tratta semplicemente di parlare di Gesù in piazza, al bar, in trattoria, inserendo il punto di vista cristiano nei vari discorsi. In particolare, oggi, sottolineando l’importanza della preghiera nella vita quotidiana e invitando a entrare in chiesa per cinque minuti, e ciò sarà possibile se la chiesa sarà sempre aperta. Oppure raccontando cosa si fa in parrocchia e facendo conoscere che le parrocchie sono ancora ambienti sani».
Parole somiglianti dice don Angelo Ciccarese di Ostuni, che da giovane fu mandato parroco in una periferia dove la chiesa ancora non c’era, avendo avuto dal vescovo il mandato di «costruire la Chiesa delle persone» prima di quella in muratura: «Ho chiesto l’aiuto ad alcuni laici e abbiamo posto al centro la parola di Dio, la celebrazione partecipata dell’eucaristia, la scommessa della carità nonostante i pochi mezzi, l’attenzione ai bisogni della gente. La costruzione della nuova chiesa l’abbiamo avviata facendo in modo che fosse tirata su con il nostro sacrificio e anche con il lavoro volontario di tanti».
La «provvidenza» del non restare chiusi il mio parroco romano la svolge così: «Il prete deve sfruttare ciò che rimane della sua autorità: è necessario che stia quasi sempre per strada, e conosca i negozianti, le persone, i dirigenti scolastici. Deve andare a trovare ogni dolore anche quando non è invitato. Se il parroco sta per strada, la strada diventa parrocchia».
Anche don Maffeis insiste sull’impresa dello stare con la gente: «A far la differenza spesso è il modo di porsi del parroco, la sua disponibilità a lasciarsi incontrare, a fermarsi sul sagrato, a camminare a piedi per le strade e a non correre da una celebrazione all’altra, contribuendo con le sue fughe a rendere impossibile l’incontro».
Andare a trovare ogni dolore
Don Francesco Pesce suggerisce ai confratelli di andare a «trovare ogni dolore anche quando non siamo invitati». Mi ha detto la stessa cosa un parroco della Toscana più anticlericale, don Renato Bellini di Vinci, che ora ha in cura 5 parrocchie: «La visita alle famiglie è un’occasione forte per incontrare chi non viene in chiesa. I non praticanti gradiscono molto questo contatto. È il mio modo di rispondere all’indicazione del papa di andare sempre dai non credenti».
Un parroco che ha molto investito sull’accoglienza degli immigrati è don Paolo Iannaccone di Aquilinia (Trieste), al confine con la Slovenia: «La parrocchia si è rivitalizzata ospitando per alcune settimane una ventina di profughi afghani e pakistani che, all’arrivo del freddo, si trovavano a dormire sul lungomare». Chi ha dato una mano a pulire l’asilo delle suore chiuso da anni, destinato all’accoglienza, chi ha portato viveri e vestiti, chi ha organizzato serate di conoscenza degli ospiti: «È stata un’esperienza di incontro con l’altro che ha dato una scossa anche per il recupero della pratica religiosa e del cammino di fede».
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