Francesco chiede perdono
A nome della Chiesa e a titolo personale
Com’è scombinato il mondo: da un quarto di secolo qui da noi s’argomenta che i papi chiedono troppi perdoni, ed ecco il Parlamento del Canada che il 1° maggio intima a Francesco di «scusarsi» per l’annoso maltrattamento dei bambini aborigeni nelle scuole cattoliche. Sul pianeta inesplorato del perdono si va a tentoni e Francesco tasta con impegno il terreno, tra le proteste di chi l’accusa di dire troppo e chi vorrebbe dell’altro.
Com’è scombinato il mondo: da un quarto di secolo – dalla Tertio millennio adveniente (1994) – qui da noi s’argomenta che i papi chiedono troppi perdoni, ed ecco il Parlamento del Canada che il 1° maggio intima a Francesco di «scusarsi» per l’annoso maltrattamento dei bambini aborigeni nelle scuole cattoliche. La richiesta arriva mentre il papa dialoga con tre violentati cileni, ammettendo d’essere stato «parte del problema» e chiedendo perdono per le proprie improvvide parole: quelle sulla mancanza di prove riguardo alle violenze da loro subite (cf. Regno-att. 4,2018,73s).
Sul pianeta inesplorato del perdono si va a tentoni e Francesco tasta con impegno il terreno, tra le proteste di chi l’accusa di dire troppo e chi vorrebbe dell’altro: provo a interrogare i suoi atti e le sue parole, cercando di vedere in che cosa differiscano da quelli dei predecessori.
Il Parlamento del Canada
dice che non basta
La protesta canadese risente del complesso antiromano tipico di metà di quel paese, che immaginavo superato con la visita di Giovanni Paolo II del 1984 (ero là per il Corsera; cf. Regno-att. 18,1984,464) – che fu accolto con favore e che a Yellowknife ebbe parole di rammarico per le responsabilità della Chiesa verso i popoli autoctoni. Benedetto, ricevendo in Vaticano una delegazione indigena il 30 aprile 2009, poté poi fare riferimento alle scuole della discordia ed esprimere «dolore per l’angoscia causata dalla deplorevole condotta di alcuni membri della Chiesa».
La mozione del Parlamento canadese ha un antefatto. Nel dicembre 2015 la Commissione per la verità e la riconciliazione aveva proposto 94 atti riparatori alle istituzioni coinvolte e il numero 58 sollecitava le scuse del papa, «per il ruolo della Chiesa cattolica nella violenza spirituale, culturale, emotiva, fisica e sessuale dei bambini inuit e métis nelle scuole residenziali»: 150.000 bambini che dalla metà dell’Ottocento a quasi tutto il Novecento furono strappati dalle loro tribù e affidati alle «scuole residenziali» gestite dalle Chiese.
Il premier canadese Justin Trudeau, venuto in Vaticano l’anno scorso, aveva invitato Francesco a recarsi in Canada per un «gesto» riparatore. Il Parlamento ha seguito il premier, dopo che il presidente della Conferenza episcopale, mons. Lionel Gendron, in una lettera di fine aprile alle comunità native aveva riferito che Francesco «considerata la richiesta e consultati i vescovi ritiene di non poter rispondere personalmente», pur «condividendo il vostro dolore» e «incoraggiando i vescovi a continuare nell’opera di solidarietà con le popolazioni indigene».
Un giorno il papa andrà in Canada – concludeva il presidente dei vescovi – e allora l’incontro con le popolazioni indigene costituirà «una priorità».
A me pare che a Francesco non si possa chiedere altro. Ma anche sul Cile ha fatto del suo meglio. La lettera ai vescovi pubblicata l’11 aprile ha questo passaggio: «Riconosco (…) che sono incorso in gravi errori di valutazione e percezione della situazione, in particolare per mancanza di informazioni veritiere ed equilibrate. Fin da ora chiedo scusa a tutti quelli che ho offeso e spero di poterlo fare personalmente, nelle prossime settimane» (cf. Regno-doc. 9,2018,293s).
Una volta, il 13 luglio 2015, di ritorno dal Paraguay, Francesco aveva detto ai giornalisti: «Se sbaglio, con un po’ di vergogna chiedo scusa e vado avanti». Era un rimando alla pedagogia ignaziana che, nella considerazione dei peccati, invita a «chiedere vergogna e confusione» (Esercizi spirituali 48). Ma una sua richiesta di scuse personale e diretta l’abbiamo avuta solo ora con i fatti del Cile.
Quando la violenza sessuale
rimanda all’abuso di potere
C’è poi stato l’incontro con le tre «vittime» il 28 e 29 aprile, con vari segni di novità rispetto alle precedenti dichiarazioni sulla dolorante materia. Il primo è nell’aver posto a finalità dei colloqui l’ascolto di «tutti i loro suggerimenti». È una specificazione significativa, stante il fatto che abitualmente le vittime vengono commiserate ma non ascoltate, specie quando mostrano un’attitudine militante nella rivendicazione dell’ascolto, che è appunto il caso dei tre.
Un’altra novità era comparsa nelle parole dette dal portavoce vaticano il 25 aprile: che i colloqui miravano a costituire «un passo fondamentale per rimediare ed evitare per sempre gli abusi di coscienza, di potere e, in particolare, sessuali all’interno della Chiesa». Trovo rilevante il raccordo delle violenze sessuali a quelle sulla coscienza e all’abuso di potere: il prete che violenta bambini e giovanissimi quasi sempre si giova dell’autorità che ha su di loro, imponendo obbedienza e facendo appello alla sua funzione di guida delle coscienze.
Quando Francesco avrà incontrato i vescovi cileni avremo il quadro completo – immagino – di questo mea culpa forse più impegnativo di altri per il coinvolgimento personale che comporta. Ma richieste di perdono, di buon impegno Bergoglio ne aveva già formulate diverse, sia muovendosi sulla traccia dei predecessori sia avventurandosi su nuove terre.
Tra i mea culpa tradizionali possiamo ricordare le parole sulle Chiese divise del 28 maggio 2014 dal Santo Sepolcro di Gerusalemme, dove risuonò l’annuncio della risurrezione (cf. Regno-doc. 11,2014,321ss); quelle ai pentecostali italiani (proscritti dal Regime fascista su sollecitazione vaticana) del 28 luglio 2014 a Caserta (cf. Regno-doc. 15,2014,479ss); quelle di Torino ai valdesi del 22 giugno 2015 (cf. Regno-doc. 25,2015,8ss); quelle del 15 febbraio 2016 agli indios del Chiapas, in Messico (cf. Regno-doc. 3,2016,70ss); quelle sul rapporto con i luterani che hanno due date: 21 ottobre 2013 e 31 ottobre 2016 (cf. Regno-doc. 19,2016,585ss); quelle del 21 marzo 2017 sul genocidio dei tutsi del Ruanda (cf. Regno-doc. 7,2017,243ss).
Per gli scandali avvenuti
sia a Roma che in Vaticano
Ma tra i mea culpa di Francesco ve ne sono anche di innovativi. Ne segnalo tre: per chi chiude la porta ai rifugiati, per gli scandali vaticani, per la tragedia dei rohingya.
La novità nel caso dei rohingya fu l’aver chiesto perdono – dal Bangladesh il 1° dicembre scorso – a nome dell’umanità, piuttosto che della Chiesa: «A nome di tutti, di quelli che vi perseguitano, di quelli che hanno fatto del male, soprattutto per l’indifferenza del mondo, vi chiedo perdono» (Regno-doc. 1,2018,22; cf. Regno-att. 22,2017,646s).
È simile il caso dei rifugiati, del 17 giugno 2015: «Invito tutti a chiedere perdono per le persone e le istituzioni che chiudono le porte a questa gente che cerca una famiglia, che cerca di essere custodita» (Regno-doc. 28,2015,19).
Più feconda è la pista delle richieste di perdono per gli scandali vaticani, che sono almeno tre.
Il 14 ottobre 2015, durante un’udienza generale, chiede perdono – rivolto alla folla, dunque al popolo dei fedeli – per «gli scandali che in questi ultimi tempi sono accaduti sia a Roma che in Vaticano».
Se noi della fauna clericale
diamo cattivo esempio
Il 21 dicembre 2015 fa la stessa richiesta ai dipendenti della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano, che incontra per gli auguri di Natale: «Mentre vi ringrazio, voglio anche chiedervi perdono per gli scandali che ci sono stati nel Vaticano. Ma vorrei che il mio e il vostro atteggiamento (…) fosse soprattutto quello di pregare (…) per le persone coinvolte in questi scandali, perché chi ha sbagliato si ravveda e possa ritrovare la strada giusta».
Il 21 dicembre 2017, nella stessa occasione: «Noi – parlo della “fauna clericale” – noi non sempre diamo buon esempio. Ci sono nella vita sbagli che facciamo noi chierici, peccati, ingiustizie, o a volte trattiamo male la gente (…) Perdono per tutti questi esempi non buoni. Noi dobbiamo chiedere perdono».
Chiede perdono ai «pellegrini» per gli scandali di Roma e del Vaticano e lo chiede ai dipendenti per quelli del Vaticano: nel primo caso è il «vescovo di Roma» che si assume la sua responsabilità di fronte all’Orbe e all’Urbe, nel secondo è il responsabile della curia e della città che compie lo stesso gesto. Chiede perdono a chi subisce lo scandalo, ne è scandalizzato, ne porta il peso. A chi – anche – si sente dire: «Tu che lavori in Vaticano, vedi che succede da quelle parti».
Concludo tracciando un quadro storico che mi pare chiaro. Il primo papa a pronunciare richieste di perdono fu Paolo VI, che si attenne – a incoraggiamento e in applicazione alle decisioni del Vaticano II – alla materia ecumenica.
Giovanni Paolo II estese l’opera di «purificazione della memoria» a ogni materia nella quale gli parve di scorgere «colpe storiche» della cattolicità, in particolare per l’antigiudaismo e per le inquisizioni: sono state più di 100 le occasioni nelle quali riconobbe errori e corresse valutazioni, facendole infine confluire nella Giornata del perdono del 12 marzo 2000 (cf. Regno-att. 6,2000,145s).
Benedetto è stato un prudente continuatore di tanto lavoro che aveva accompagnato dalla Congregazione per la dottrina della fede, spesso suggerendo prudenza ma infine assumendosi la responsabilità del documento preparatorio di quell’atto giubilare redatto dalla Commissione teologica internazionale di cui era presidente: Memoria e riconciliazione. La Chiesa e le colpe del passato. Un testo che ebbe come principale estensore Bruno Forte non ancora arcivescovo, e che il cardinale Ratzinger presentò alla stampa il 7 marzo 2000 (cf. Regno-doc. 5,2000,137ss).
Nuovo è il riconoscimento
degli errori personali
Da papa, Joseph Ratzinger aggiunse due tematiche attuali alle «colpe storiche» di cui prevalentemente si era occupato il predecessore: le responsabilità del clero polacco che collaborò con il regime comunista (25 maggio 2006 nella cattedrale di Varsavia; cf. Regno-doc. 11,2006,337ss), lo scandalo dei preti pedofili (11 giugno 2010 a conclusione dell’Anno sacerdotale; cf. Regno-doc. 13,2010,385ss).
Francesco è tornato alla sovrabbondanza del papa polacco continuando ad aggiornare i pronunciamenti all’attualità e aggiungendo due modalità inedite di riconoscimento delle colpe: la richiesta di perdono al popolo di Dio per le responsabilità dei pastori e il riconoscimento di propri errori personali di comportamento.
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