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Moralia Blog

Non uccidere. Un principio senza eccezioni

Nelle scorse settimane sono intervenuto all’iniziativa di educazione civica, promossa dalla rivista La Tecnica della Scuola, «L’Italia ripudia la guerra. La scuola rilancia l’art. 11 della Costituzione», che ha visto la presenza del ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi.

Nell’occasione, uno studente di quinta superiore ha fatto una domanda sulla posizione dei giovani come lui che, senza obbligo di leva e quindi senza preparazione militare, potrebbero essere chiamati alle armi, in caso di entrata in guerra da parte dell’Italia.

La domanda – lo dico sinceramente – mi ha preoccupato, e molto. Perché fa paura pensare che, ai nostri giorni, ci siano ragazzi neanche ventenni che vivono con lo spettro di una guerra incombente, che a essa guardano come a una possibilità quasi dietro l’angolo, al punto da avvertire la necessità di essere pronti, preparati, addestrati militarmente.

La conferma di questa preoccupazione mi è arrivata qualche giorno dopo, dal barbiere: un ragazzo, poco più che ventenne, mentre si tagliava i capelli colloquiava, in maniera tranquilla, direi «naturale», sull’importanza – a suo dire – di reintrodurre in Italia la leva obbligatoria. «Dobbiamo esseri pronti alla guerra», già ha detto proprio così!, senza avere piena consapevolezza della gravità delle parole che stava pronunciando.

Ecco che è ritornata la guerra. Ed è ritornata per davvero. Non tanto nella storia dell’umanità – da qui, purtroppo non è mai andata via! –, ma nelle nostre idee, nelle nostre teste, di donne e uomini nati e cresciuti in contesti di libertà e di pace.

Siamo disposti a rinunciare del tutto alla guerra?

Diciamolo francamente: comprendiamo (forse…) pure il dramma, la tragedia, il valore negativo della guerra ma non siamo disposti a rinunciarvi del tutto, in maniera netta, chiara, inequivocabile. Senza compromessi. Non lo siamo come stati. Non lo siamo come persone.

Ci nascondiamo, con una buona dose di ipocrisia, dietro la distinzione tra offesa e difesa, tra aggressori e aggrediti, tra vittime e carnefici. E ammettiamo, senza farci troppi problemi, che ci sono guerre e… guerre. Che c’è una parte giusta e una parte sbagliata. Che ci sono vite (e morti), quelle dei militari e quelle dei civili, con pesi differenti.

D’altronde negli ultimi decenni abbiamo assistito senza batter ciglio a una preoccupante deroga al principio dell’illegittimità dell’uso della violenza armata nella comunità internazionale. «Missioni di pace», abbiamo chiamato, spesso e volentieri, le guerre di quell’Occidente che credeva (e crede tutt’oggi) di poter esportare democrazia e diritti fondamentali a colpi di mitragliatrici e di carri armate. I nefasti risultati di queste «missioni» che hanno finito per far emergere nuovi scenari di instabilità politica e sociale sono sotto gli occhi di tutti.

Così, all’indomani dell’attacco armato russo sull’Ucraina, il presidente del Consiglio dei ministri italiano Mario Draghi ha parlato di un «attacco ingiustificato e ingiustificabile». Ma davanti a queste parole dobbiamo con chiarezza affermare che non solo questo, ma nessun attacco armato può mai essere ritenuto giustificato e ingiustificabile. La guerra, ogni guerra, condannata al più alto grado del nostro ordinamento democratico con il «ripudio» (art. 11 della Costituzione), non ammette aggettivi.

La scelta tragica

In queste settimane, in questi giorni, in queste ore, che vedono morire migliaia di vite umane, tra militari e civili, tra ucraini e russi, e non solo, a guadagnarci sono le imprese che fabbricano armamenti, i cui titoli salgono di valore sui mercati finanziari. Le industrie della guerra, che provocano morte e distruzione. E noi, queste industrie, le continuiamo a foraggiare. Continuiamo a foraggiare morte e distruzione.

L’invio di armi dall’Italia all’Ucraina ha un peso etico enorme. Sia chiaro, la guerra in sé è un problema etico, ma non è un dilemma: la condanna, ai nostri giorni e alle nostre latitudini, mette d’accordo la maggior parte di noi.

Il dilemma morale, quindi, sta nella la giustificabilità dell’azione di aiutare militarmente, anche in maniera indiretta con l’invio di armi, uno stato aggredito che si vuole difendere da uno stato aggressore. Una prospettiva estremamente realistica (che è cosa diversa dalle teorie geopolitiche realiste) porta a sciogliere il dilemma con l’espediente del male minore. Come fa, d’altronde, il Catechismo della Chiesa cattolica e come ricorda lo stesso segretario di Stato vaticano, il card. Pietro Parolin.

Ma si dimentica che il male minore è pur sempre un … male. E che le armi, quelle armi che noi inviamo, uccidono altre vite, altre persone umane, quando invece il principio etico «non uccidere» – che per chi è crede un comandamento di origine divina – è assoluto, e non ammette eccezioni. È proprio di fronte a dilemmi etici come questo, a scelte tragiche come questa, che dobbiamo trovare le ragioni culturali e le forze spirituali per affermare senza mezzi termini l’inammissibilità sul piano morale, l’ingiustizia, di ogni forma di violenza. Che sia pure la violenza dell’aggredito sull’aggressore. Che sia pure la complicità a questa violenza.

È difficile, lo so bene. Se così non fosse non sarebbe una scelta tragica. Ma una posizione decisa e convinta a favore della pace non lascia spazio a fraintendimenti, a semplificazioni, a vie d’uscite di matrice utilitaristica. In questo momento, l’obiettivo principale è di arrivare a un cessate il fuoco immediato in Ucraina per salvare vite umane, per tenere in piedi sogni e speranze. E il fuoco non può cessare con altro fuoco. Le retoriche sui patriottismi e sugli eroismi da guerra lasciamole, per favore, alla storia. Una storia che non si deve ripetere.

 

Luigi Mariano Guzzo è ricercatore in Diritto ecclesiastico e canonico presso l’Università di Pisa, Dipartimento di Giurisprudenza.

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