d
Il Regno delle Donne

Stare al mondo come Francesco piccolino

Nella vita del Santo d’Assisi ci sono alcune intuizioni di fondo che sembrano ancora disattese, nonostante la larga fama e la grande devozione che circondano il frate del Cantico delle creature. Queste riguardano la fragilità, la comunione nella Chiesa, l’inclusione sociale, i rapporti fra uomini e donne. Ricordarle è un buon modo per celebrare la festa del 4 ottobre.

Puntuale, anche quest’anno è arrivata la festa di Francesco di Assisi. Già la popolarità di questo santo era singolare, ancora prima che un papa prendesse il suo nome e lo richiamasse così da vicino, ma oggi in moltissimi guardano a lui, come dimostra il flusso impressionante di pellegrini alle Basiliche che ne custodiscono la memoria.

Purtroppo viene da pensare però che nonostante tale riconoscente celebrazione, che nel giorno della festa insieme al popolo cristiano vede schierate non solo le autorità ecclesiali ma anche quelle civili e politiche, nonostante il grande rispetto che tutti sembrano portare a questo santo, nonostante si cerchi di cogliere nella sua luminosa umanità qualcosa che lega insieme credenti e non credenti o credenti di altre esperienze religiose, nonostante tutto ciò viene da pensare che questi sono tempi in cui le intuizioni di fondo di frate Francesco vengono disprezzate e disattese.

Francesco, il lebbroso e la riforma della Chiesa

Nella Chiesa emergono correnti che frenano il rinnovamento, la riforma, il richiamo alla rettitudine evangelica che il papa fa in ogni occasione. Sembriamo nostalgici di una Chiesa sicura di sé, forte, arroccata sulla propria proposta sociale e morale, non interessata ad ascoltare, a mettere a nudo le proprie fragilità, a scegliere di farsi piccola con i più piccoli. Certezze dottrinali, miracolismo, incrollabili ed eterne verità morali, rigoroso ordine gerarchico nell’istituzione, questo sembra rassicurare i credenti. Ma Francesco, quando alla fine della vita deve lasciare ai suoi ciò che è stato più prezioso per lui, consegna loro non il ricordo del prodigioso parlare del Crocifisso a San Damiano, né vanta la propria vita austera o i segni delle stimmate; ricorda invece l’abbraccio con un lebbroso, un povero repellente che mostra ciò che ciascuno è: debole, fragile, consegnato alla morte, eppure infinitamente amato e quindi infinitamente degno d’amore.

Francesco ama la Chiesa perché in essa vede la stessa fragilità del lebbroso, contempla nei sacerdoti poverelli il volto sfigurato del Crocifisso che si consegna alla nostra miseria, ma non per questo si allinea allo stile della Chiesa del suo tempo. Molti sottolineano che Francesco è rimasto sempre obbediente all’autorità ecclesiale – ed è vero – ma, se è vero che è rimasto sottomesso, è vero anche che non si è allineato ad una struttura ecclesiale assuefatta a logiche di grandezza e potere. Ha servito la Chiesa diventandone, forse al di là di ogni sua previsione, l’anima critica. Non ha condannato la ricchezza dei prelati del suo tempo, ma non l’ha voluta per sé. Non ha condannato le logiche di potere dell’istituzione ecclesiastica e civile, ma non le ha volute per sé. Gli è sembrato più giusto tornare al Vangelo, che insegna a non giudicare, ma insegna anche la povertà e la minorità. E queste ha scelto per sé, diventando nella Chiesa un lievito di novità e di riforma non con le parole, ma con la vita vissuta.

Guardando sfilare i tanti pellegrini, i tanti ministri che si avvicendano sull’altare costruito sopra la sua tomba, viene da domandarsi se abbiamo dentro il suo stesso anelito all’autenticità evangelica, che ci porta a diventare nella chiesa e per la chiesa un monito vivente di riforma e di novità. Che scegliamo per noi oggi? Che Chiesa vogliamo essere? Che significa oggi essere minori, i più piccoli, come Francesco voleva essere? E perché guardare a lui se non vogliamo essere i più piccoli?

Francesco aveva ribrezzo dei lebbrosi e festeggia come l’evento centrale della propria vita il momento in cui non ne prova più ribrezzo, quando riesce ad abbracciarne uno e poi addirittura a servirne tanti per alleviare le loro sofferenze, vivendo con loro, toccandoli e amandoli, facendosi lebbroso con i lebbrosi. Magari anche la nostra Chiesa è attraversata dal ribrezzo per gli altri, per i lebbrosi di tanti tipi che ci fanno paura perché ci fanno da specchio del nostro cuore e della nostra miseria. Se così fosse dovremmo chiedere a Dio di farci fare lo stesso passaggio del suo servo Francesco: farci diventare dolce ciò che ci è amaro, cioè l’altro che ci fa ribrezzo. Dovremmo chiedere di saper servire l’altro senza accondiscendere al peccato, senza giustificarlo con logiche spiritualistiche o razionalistiche; servirlo senza ritirarsi dalle sue piaghe, ma senza fare finta che queste non ci siano e cominciando a chiederci che cosa possiamo cambiare perché nessuno si piaghi più.

Contro la paura, l’abbraccio

Lo stesso occorre chiedere per l’Europa e per l’Italia, mi sembra. Abbiamo paura dell’altro, ci fa ribrezzo. Eppure sappiamo che tutti siamo stati e saremo forestieri, tutti siamo poveri e bisognosi. Possiamo tenerci il ribrezzo e la paura, cavalcarli fino a far diventare i poveri il capro espiatorio da eliminare per sentirci meglio. Oppure possiamo abbracciare, riconoscendo che noi non siamo migliori di nessuno, che i nostri figli non sono migliori dei bambini che muoiono in mare o di fame, che è arrivato il momento di smettere di divorare la terra e gli esseri umani, per condividere ciò che abbiamo con dignità, impoverendo chi è così ricco da aver perso la misura di se stesso e della propria morte, che nessuna cifra di denaro può allontanare.

Cieco, malato e sofferente, in fin di vita, Francesco canta la bellezza del mondo che ha compreso come un dono di Dio, un dono da godere e da non sciupare, un dono che ci dice che siamo amati, che non abbiamo bisogno di arraffare e divorare per vivere: noi siamo i figli del Padre buono che conta anche i capelli del nostro capo. Anche la morte diventa sorella così, perché non dobbiamo noi garantirci la vita, ma possiamo condividerla e consegnarla, aspettandola di nuovo da Colui che fa risorgere anche i morti.

Un uomo e le sue sorelle

E morendo, frate Francesco si stringe intorno ai frati e all’amica di sempre, Iacopa, perché chi vive come figlio di Dio si scopre fratello di tutti senza bisogno di tenere alcuna distanza, senza alcun ribrezzo per nessuno o nessuna.

Vince anche l’astiosità innata che in un sistema maschilista e patriarcale come il nostro viene instillata in tutti gli uomini maschi: rinuncia ad essere più grande anche delle donne, si fa minore anche nei loro confronti. Non le accusa per il proprio desiderio, non le demonizza, non le disprezza. Con fatica e gradualmente abbandona ogni timore e si apre alla relazione paritaria e reciproca, chiedendo alla sua amica di venirgli accanto nella morte, mettendole davanti il proprio bisogno come aveva raccomandato ai frati di fare gli uni con gli altri. Rinuncia a stare in posizione di forza e di preminenza, non ha bisogno di essere o valere più di nessuno, nemmeno di una donna.

Ci insegna così che la fraternità vera nasce solo dalla scoperta profonda di essere piccoli, di non poter vivere se non con e per gli altri. Come Gesù, come Dio, che è mistero di vita condivisa e non vuole vivere se non con e per noi.

Buona festa, allora, sulla strada di frate Francesco piccolino.

 

A proposito di questo blog 

 

Lascia un commento

{{resultMessage}}