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Il Regno delle Donne

Maschilità e violenza: un copione che riguarda anche me - 25 Novembre /3

Nella violenza compiuta da ogni mano maschile riconosco qualcosa – una sorta di sentire collettivo – che avvolge anche me e che mi spinge a interpretare il mio essere uomo in forme che in qualche modo comprendono e incubano tale violenza.

Non è che non veda che la violenza sulle donne riguarda gli uomini. Li riguarda – come negarlo visto il moltiplicarsi dei casi e lo specificarsi così puntuale delle circostanze? – appunto in quanto uomini: maschi che esercitano violenza su donne. Sulla scena dei delitti nei quali le vittime sono femmine, chi è presente come prevaricatore, innumerevoli volte, è distinguibile anzitutto dal suo genere differente.

Nella tipologia di violenza che abbiamo giustamente imparato a chiamare “femminicidio”, la maschilità non è catalogabile solo tra le circostanze della tragedia, appartiene piuttosto alle sue cause specifiche, contribuisce a definirne il movente.

Agenti e agìti

Cosa intendo dire? Che il solo essere maschi configura dei potenziali uccisori?

Non ho dubbi nel rispondere di no – in prima battuta – a questa domanda. L’esercizio della libertà ha nella coscienza di ciascuno la sua scaturigine e nessuna persona è determinata alla violenza da nessuno dei tratti che configurano la sua esistenza. La violenza verso altri, pur nell’insondabile intreccio delle tante cause che sostanziano l’agire umano, è riconducibile anzitutto al volere di chi la pone in atto.

Nessun uomo è costretto o spinto irrevocabilmente da qualcosa più forte di lui a uccidere una donna. Se lo fa è perché lo vuole, lo sceglie, decide di farlo. Nell’ultimo terribile gesto può essere forse spinto da un impulso ormai irrefrenabile; ma ciò accade solo se il pensiero che quel gesto sia possibile e abbia una sua ragione (è agghiacciante usare qui questa parola!) già da tempo ha trovato spazio in lui, ha già spinto le sue radici nell’articolazione dei desideri senza trovare anticorpi adeguati.

È dunque doveroso ricostruire l’accaduto facendo riferimento alla biografia personale di quel particolare uomo che in quello specifico contesto e in quel dato momento ha ucciso; è cosa necessaria per cogliere la sua precisa e puntuale responsabilità. Chi esercita violenza ha un nome, è lui che lo fa, lui che agisce; i tratti da ricostruire sono certamente anzitutto quelli del suo volto.

Ma non è tutto qui. La specificità con cui la violenza di genere si ripresenta indirizza a pensare che chi ne è autore è certamente “agente”, ma anche “agìto”. Nel gesto assassino di un uomo che uccide una donna emerge e si mostra qualcosa che tocca tutti gli uomini, tutti i maschi, e l’intero immaginario collettivo che li riguarda. I maschi sono “istigati” alla violenza di genere? C’è ancora chi risponde di sì imputando – ahimè – erroneamente e meschinamente alle donne la causa di tale istigazione; è una risposta terribilmente sbagliata a una domanda in sé acutamente ben posta.

Una tale “istigazione” esiste sì, ma va ricostruita in ben altra direzione: nell’esercizio collettivo della maschilità così come tutti insieme lo abbiamo configurato. Al compiersi di ogni femminicidio viene uccisa una donna e, al contempo, si mostra e si perpetua lo sfiguramento di ciò che essere maschio può significare. È in questa direzione che l’indagine va portata avanti; qualche passo è stato mosso,[1] ma è solo l’inizio.         

Questioni di setting

Ogni colpo e ogni sofferenza inflitta a una donna fa profondamente male anche a me come uomo, sfigura anche me: se la riflessione fatta fin qui è vera è da qui che posso ripartire. Lo scenario nel quale la violenza di genere viene alla luce comprende anche me, vede anche me tra le vittime. Nella violenza compiuta da ogni mano maschile riconosco qualcosa – una sorta di sentire collettivoche avvolge anche me e che mi spinge a interpretare il mio essere uomo in forme che in qualche modo comprendono e incubano tale violenza.

Il discorso si fa dunque necessariamente intimo e personale: «Io, come maschio, questo dolore lo sento?». Mi turba e mi lacera profondamente il grido di dolore delle donne uccise da noi uomini, di ogni donna da noi uccisa; come è possibile oggi non udirlo più? E in esso, quasi come eco che risponde a tale urlo lacerante, percepisco il singhiozzare della mia voce di uomo? Qualcosa inizia a cambiare quando di tutto ciò anche io inizio a parlare non in terza persona o in generale, quando – cioè – accolgo il rischio e sperimento il senso di liberazione di parlarne a partire da me, partendo dalle mie ferite.

Avvicinandomi ad ogni femminicidio a partire anche dal mio dolore di uomo, immerso in questo specifico soffrire che mi riguarda proprio come maschio, entro finalmente nella scena, smetto di descriverla come un osservatore esterno. È il mio stesso dolore, ora strettamente unito a quello di ogni donna uccisa, che mi scuote e mi dà forza. Da qui, inserito in questo quadro che mi disegna con tinte che mi inorridiscono, imparo a riconoscermi meglio tra i protagonisti. Di questo setting dentro il quale mi trovo a vivere e che in modo infiltrante mi condiziona, io sono certo un attore a cui è affidata l’esecuzione di una parte, ma sono anche un autore.

Posso continuare a interpretare il copione così come mi è stato tramandato oppure stare dentro alla parte che mi è assegnata ridefinendone radicalmente i tratti. Lo scenario nel quale la violenza di genere viene alla luce, del quale sono in qualche modo vittima, ha di fatto anche me tra gli esecutori generali della trama; il solo pensiero che sia così e che io non faccia nulla per cambiarlo mi riempie di angoscia…È oggi finalmente il tempo di dire basta, tutti insieme, alla violenza sulle donne ed è anche finalmente il tempo per ogni uomo di dire basta al doversi trovare sulla scena del delitto dovendo dire piangendo: «Anche io ne sono autore, sono stato anche io».

Barzellette e opere d’arte

Nel tempo assegnatomi per scrivere queste riflessioni mi sono fatto più attento al mostrarsi del setting sopra descritto e alla sua possibile riscrittura. Due episodi mi hanno colpito e istruito su come tale scenario può essere tragicamente perpetuato o creativamente riscritto dentro le forme ordinarie della cultura.

Una sera, a tavola con amici tutti uomini, qualcosa mi fa andare di traverso la pizza e gelare il sangue nelle vene. Uno dei presenti racconta una barzelletta.

«Tre uomini – un francese, un tedesco e un italiano – si iscrivono al concorso per entrare in un corpo speciale della polizia. La prova decisiva consiste in questo: consegnata una pistola, viene a ciascuno indicata la porta di una stanza nella quale troverà la propria moglie. Passa il concorso chi ha il coraggio di ucciderla (sic!). Entra il francese, segue un grande silenzio dopo il quale egli esce abbacchiato dicendo: “Non me la sono sentita…”. Entra il tedesco, di nuovo segue un grande silenzio e anch’egli esce senza aver sparato. Entra infine l’italiano, si sente un gran frastuono dopo il quale esce raggiante e dice: “Missione compiuta. Potevate però dirmelo che la pistola era caricata a salve, ho dovuto rompere il tavolo e procedere a bastonate!”».

I presenti ridacchiano, solo uno prende la parola un po’ contrariato; esterrefatto attendo con ansia le sue parole e rimango ulteriormente basito: «È ora di smetterla – dice – con queste barzellette che mettono sempre in ridicolo noi italiani!». Provo a prendere la parola ma è decisamente difficile far cogliere la gravità e l’orrore – per me evidentissimi – insiti nel setting tracciato dalla barzelletta…

Da qualche anno godo dell’amicizia di un artista.

Entro sempre con curiosità nella sua bottega, so che c’è sempre qualche opera nuova alla quale è intento; è così anche stavolta. La mia attenzione è attirata subito da due piccole statue fatte da poco – la creta è ancora umida – in attesa di essere portate in fornace per la cottura. Gli è stato chiesto di realizzare una statua in bronzo, a grandezza naturale, in onore di Sant’Agata; quelle davanti ai miei occhi sono le prime due prove di tale progetto. Aggiunge: «Penso che realizzerò la seconda; la prima non sarebbe capita dalla gente che si aspetta la raffigurazione classica della santa».

Mi avvicino alla seconda: Agata è raffigurata in piedi, con aria ieratica, avvolta da una lunga tunica leggermente strappata all’altezza del petto; tiene in mano un vassoio sul quale sono posate le sue mammelle, la cui amputazione violenta è il modo in cui è stata uccisa. Non c’è dolore nei suoi tratti, non nascono interrogativi o emozioni in me che guardo l’opera. Non ho mai amato queste raffigurazioni che celebrano la preziosità del martirio ostentando i particolari della violenza subita.

In questo caso poi la scena lascia intendere la presenza – come mandante – di un uomo che aveva mire di sopraffazione su di lei proprio in quanto donna; ma tutto pare avvolto e spiegato da qualcosa di sacro. Guardo questa statuetta ispirata a un immaginario così stereotipato e – conoscendo la sensibilità dell’amico artista – mi meraviglio che l’abbia potuto far suo. Lo sguardo si sposta però subito sull’altra statuetta, la prima che è uscita dalle sue mani. La scena è radicalmente diversa.

Agata è in piedi, addosso le è rimasto solo un telo leggero; ha in mano i brandelli della sua tunica, ridotti a un insieme di panni laceri. Li protende in avanti, mostrandoli con gesto disperato e interrogante a chi guarda l’opera mentre il suo volto – con bocca e occhi compresi in un urlo –– è rivolto verso il cielo. Cerco di convincere l’amico artista a dar seguito a questa sua prima intuizione cercando di riscrivere insieme con lui, uomo come me, un pezzetto del copione sul maschile e sul femminile che abbiamo entrambi ereditato.

 

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[1] Cf. ad esempio: S. MANGHI, L’altro uomo. Violenza sulle donne e condizione maschile, Pazzini, Rimini 2014.

Commenti

  • 28/11/2017 amferrari@gazzettadiparma.net

    Riflessione preziosa, grazie. Fa sentire noi donne meno sole....Credo che sia la strada giusta partire dall'"io", alla radici della violenza c'è anche la direzione "centrifuga", il rinviare sempre l'azione all'esterno, agli altri e non a se stessi: penso che si debba ripartire dai piccoli gesti individuali e quotidiani, la barzelletta è un esempio calzante. Vale anche per noi donne, con grande fatica a casa e sul lavoro non soggiacere alla cultura quotidiana della sopraffazione, anche se è talmente radicata che leggerla è un'impresa.

  • 28/11/2017 mantellicarla59@gmail.com

    A proposito di "setting". Qualche giorno fa ho accompagnato alcune mie classi del Liceo in cui insegno a visitare un' istituzione monastica NON cristiana. L'abate (italiano) del monastero ha affermato, di fronte al folto gruppo di sedicenni che lo ascoltavano esterrefatte: "“SE VOI RAGAZZE NON TROVERETE UN UOMO CAPACE DI DARVI UNA DIREZIONE SARETE DISTRUTTE”. Secondo quest'uomo religioso e colto le donne hanno bisogno di un capo essendo evidentemente incapaci di autonomia e responsabilità. Non si potrebbe immaginare un humus più adatto all'attecchire della violenza maschile sulle donne.

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