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Il Regno delle Donne

Festa della mamma | Essere madri: né diritto né dovere

La potenza di vita del corpo femminile è stata ora sequestrata, ora emarginata e demonizzaata, ora idealizzata... È dunque il momento di ascoltarla nella concretezza e nello spessore del vissuto, fuori da ogni retorica.

Tre cose mi sono difficili,

anzi quattro, che io non comprendo:

il sentiero dell'aquila nell'aria,

il sentiero del serpente sulla roccia,

il sentiero della nave in alto mare,

il sentiero dell'uomo in una giovane.

(Proverbi 30, 18-19)

Sono parole antiche, che esprimono l’inquietudine e la meraviglia suscitate dalla fecondità delle donne. Il mistero resta tale anche oggi, nonostante la biologia ne abbia praticamente svelato il funzionamento. Possiamo trattarlo in due modi molto diversi: addomesticarlo con espedienti retorici, oppure abitarlo rispettandone lo spessore e la consistenza. Nella storia è la prima delle alternative a essersi verificata: la potenza di vita del corpo femminile, avvertita come stupefacente e inquietante al contempo, è stata sequestrata attraverso metafore, emarginata come elemento pericoloso e idealizzata.

Metafore, mostri, modelli

Un esempio molto evidente di sequestro metaforico della maternità si trova nella filosofia socratica, che immagina il lavoro del pensiero come un’arte maieutica grazie alla quale si fanno partorire le anime, mentre l’esperienza delle donne viene squalificata come evento che coinvolge “solo” i corpi.

L’elemento materno viene spesso emarginato dalla scena pubblica, che solitamente si affida a dispositivi demonizzanti: le madri sono dipinte in termini mostruosi, perché soggetti senza fondo, avidamente affamate di affetti e di attenzioni, incapaci di lasciar andare la vita, e dunque fagocitanti. Non si tratta solo di storie e film dell’orrore, ma anche di alcune ricostruzioni sociologiche e psicoanalitiche, che raccontano in modo troppo lineare di padri assenti ed estromessi dalla vita familiare per l’ingombro della presenza e della potenza materna.

Inoltre, pur apparentemente di segno contrario, anche le forme di idealizzazione contribuiscono alla distorsione. Secondo il codice del cosiddetto genio femminile, per esempio, una madre è naturalmente capace di farsi carico della vita, generosa in modo smisurato, portata a consolare per le tante mancanze che segnano l’esistenza, sorgente d’amore inesauribile.

Le madri, tuttavia, non sono di per sé né metafore, né mostri, né modelli. Di solito, come spiegava bene Winnicott, sono “sufficientemente buone”. Solo che la loro storia accaduta o mancata non può essere raccontata né con il registro del diritto né con quello del dovere, perché è sempre al di là di questo binomio. A rimarcarlo ancora una volta si ha l’impressione di ripetere discorsi ormai logori e abusati, discorsi che il femminismo ha da tempo elaborato, approfondito e condiviso. Eppure non si può fare a meno di avvertirne ancora l’urgenza, in un tempo che spesso descrive e norma la vita delle donne senza mai interpellarle.

Di mamma non ce n’è una sola

Se ascoltassimo invece le madri reali ogni retorica si dissolverebbe. Esse non sono tutte uguali: ci sono quelle che hanno voluto essere madri e ci sono riuscite, sperimentando gioiosamente il dono di mettere al mondo qualcuno e l’avventura di prendersene cura; ci sono quelle che di questo si fanno narcisisticamente vanto, innescando tragiche competizioni sulle spalle dei figli; ci sono quelle che invece non hanno potuto esserlo, ferite dal limite del corpo o della storia, con le sue guerre, i suoi divieti, i suoi confini; ci sono poi quelle che non hanno voluto, da sempre guardate con sospetto se non hanno scelto di consacrare la propria vita a Dio; ci sono quelle che lo sono diventate per forza, e si sono trovate a scegliere se salvare o sacrificare la vita assurdamente generata dalla violenza; ci sono quelle che hanno rinunciato quando già lo erano, tormentate da un senso di impossibilità che niente e nessuno poteva convertire; ci sono quelle che vivono da sole con figli minori in crescita e che questa società ha di fatto abbandonato a loro stesse; ci sono quelle povere e disperate che muoiono in mare o che, accolte o rimandate sui tanti confini del paese, assistono ai nostri Fertility Day con l’amaro in bocca, perché sentono di non essere previste e di venire tacitamente colpevolizzate per avere tanti figli in quella condizione di miseria; ci sono poi quelle che desiderano esserlo ma non amano alcun uomo; e ci sono quelle disposte a diventarlo per altri, impigliate più o meno consapevolmente in una cultura che ha sempre mercificato e usato il corpo femminile.

Prendersi cura delle madri

Sono esperienze molto diverse tra loro, che proprio per questa difformità non solo pongono severamente di fronte alle contraddizioni di questo tempo, ma anche sensibilizzano alla complessità del vissuto. Ad ascoltarle si impara che generare qualcuno significa al contempo rimettere al mondo se stesse, costeggiando un abisso che promette meraviglie, ma che prevede anche una vulnerabilità arrischiata di cui la comunità è sempre responsabile. Una madre, allora, non è mai solo un essere che dispensa cure, è qualcuno di cui occorre prendersi cura, cominciando anzitutto col riconoscerne la voce.

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