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Moralia Blog

Valdesi e cattolici: una storia nuova da scrivere insieme

L’intervento di Fulvio Ferrario, acuto e autorevole (a lui si deve uno dei migliori contributi teologici in circolazione in proposito), ha evidenziato come nella recente richiesta di perdono e relativa accoglienza tra papa Francesco e comunità valdese siano emersi nodi più impegnativi. Da una parte c’è l’interrogativo circa la praticabilità del perdono nella storia, dall’altra una difficoltà – a volte una vera e propria incompetenza – a decifrare la questione da parte dei media e quindi, si può immaginare, della cultura di cui essi sono espressione, in cui fa spesso capolino un immaginario morale semplificato da linguaggio western.

Ambiguità del perdono?

Che vi siano tratti ambigui nell’esperienza  e nelle immagini del perdono emerge con lucidità dal dibattito filosofico del Novecento: prospettare un perdono troppo facile (chi non stigmatizza proprio quei giornalisti che a sangue caldo si avventano sulle vittime a chiedere se siano disponibili a perdonare?) o al contrario impossibile (magari praticabile in contesto religioso, ma non da tutti e men che meno a livello di istituzioni); confonderlo – lo osservava Vladimir Jankélévitch – con l’oblio che dimentica fingendo che nulla sia successo, o la scusa che giustifica, escludendo il profilo morale della ferita inflitta ad altri; mancare di riconoscere che la vittima (o la società per essa) possa anche finire per vantare un credito verso il carnefice, in termini di potere, perpetuando una serie di prevaricazioni (chi perdona – diceva acutamente Jacques Derrida – deve anzi tutto chiedere perdono all’altro per il fatto di perdonarlo).

Con forza emerge poi, specie dopo la Shoah, la necessità ma anche il limite di un perdono richiesto e offerto a nome di altri che non esistono più, ed è questo il nodo critico sollevato nella risposta del Sinodo ed efficacemente ripreso da Ferrario: “Il Sinodo non ha l’autorità del martire”, né di chi possa giudicare “a buon mercato” del “sangue delle vittime” o “dell’umiltà di chi domanda perdono”, insomma non si perdona per un pugno di dollari, men che meno per conto di altri.

Un caso serio

Il problema è seriamente posto, dato il profilo eminentemente personale del dolore per la ferita e della responsabilità della colpa. Quali spazi allora per pensare il perdono in termini comunitari? C’è una memoria del male subìto che si tramanda ai posteri, ricorda Enzo Bianchi in un suo recente intervento, e c’è una solidarietà nella colpa dei propri padri (a volte sperimentabile anche a partire dalla coscienza dei vantaggi ereditati dai figli, proprio in virtù di tali colpe), in ogni caso un “materiale” morale capace di lavorare nell’oggi come possibile matrice di ulteriori violenze o di reciproca indifferenza, o viceversa come sfida a un futuro differente.

Il perdono – evangelicamente rivelato come liberazione donata rispetto al ruolo di carnefice o vittima, in virtù di quel mistero più grande che ogni persona è – consiste nel riattraversare insieme (offeso e offensore) la ferita, con il suo peso e il suo senso, aprendo qui un nuovo spazio di speranza e di promessa, un rapporto gravido di futuro non solo nonostante, ma a partire dal male occorso.

Purificare il ricordo e inaugurare un tempo diverso sono possibilità forse accessibili anche a livello di comunità, a qualche titolo eredi e solidali, che intendano assumere le ferite passate. Si tratta di forzare quella che Raymond Aron chiamava “l’illusione retrospettiva della fatalità” attraverso una memoria ricostruttiva che – secondo la felice espressione di Paul Ricoeur – può animare un risveglio (una risurrezione?) in quel “cimitero di promesse non mantenute” che è la storia degli effetti delle offese. E sotto questo profilo la risposta del Sinodo valdese coglie appieno il valore antropologico e teologico del perdono quando parla di “scrivere insieme una storia nuova”, in risposta al gesto con cui Francesco, assumendo in termini di pentimento la colpa degli uomini di Chiesa di un tempo, offriva e chiedeva la possibilità di una storia nuova.

Chi si aspettava un Mezzogiorno di fuoco, in cui un facile colpo di spugna avrebbe spazzato via la tragedia delle persecuzioni trascorse, sarà rimasto deluso. Il percorso qui inaugurato sarà certo lungo e faticoso, com’è normale che sia la riscrittura assieme di una storia passata per guardare diversamente al futuro. Esso consentirà però alle Chiese di testimoniare al loro interno (dove forse qualche resistenza incontreranno) e al mondo intero – un mondo che fatica a pensare o meglio a credere in profondità al perdono – che il male possa non essere, nella storia, la parola ultima e definitiva.

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