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Moralia Blog

Paura o fiducia. Un’alternativa teologico-politica

Uno sguardo alla cronaca ci permette di individuare due figure emblematiche di come la scena culturale e sociale della nostra epoca sia ambivalente.

La prima figura è l’attuale sindaca di Barcellona, Ada Colau, che ha promosso la rete internazionale delle «fearless cities», le città senza paura. Tale rete si propone di mettere in collegamento i progetti e le esperienze, attivati dalla politica locale, che si impegnano a offrire soluzioni concrete alle paure serpeggianti nella popolazione, immettendo fiducia dentro il tessuto della comunità civile attraverso pratiche ispirate ai principi cardine della libertà, dell’uguaglianza e della fraternità.

La seconda figura, antitetica, è l’ex stratega del presidente americano Trump, Steve Bannon, che ha dato vita a «The Movement», una sorta di movimento internazionale populista e sovranista, che si pone come obbiettivo di unire tutte quelle forze politiche, presenti nel mondo occidentale, disponibili a innescare una rivoluzione di destra, soprattutto in vista di mutare radicalmente l’assetto europeo.

Qui la strategia è quella di enfatizzare e strumentalizzare la paura e il risentimento prodotti dalla crisi economica, incanalandole nel contrasto verso un nemico sociale, individuato non solo nei cosiddetti poteri forti, ma più diffusamente nell’immigrazione, nell’islam, nell’omosessualità, insomma nelle «differenze».

Cultura del sospetto e dell’esclusione

La contrapposizione di queste due figure è paradigmatica del dilemma, che grava sulla forma dei rapporti nel nostro contesto socio-culturale. È il dilemma oscillante tra le due posizioni esistenziali antitetiche che sono la paura e la fiducia.

Nella nostra epoca la questione delle questioni, a livello dello stile del vivere insieme, è quella che chiede di scegliere tra la chiusura prodotta dalla paura e l’apertura generata dalla fiducia. Non è affatto una scelta scontata, entro il contesto complesso e complicato in cui ci troviamo.

Stando agli immaginari sociali prevalenti nella contemporaneità, l’altro sembra avere il volto minaccioso dell’antagonista o addirittura del nemico, piuttosto che il volto promettente dell’alleato o del fratello.

Allora risulta sempre più chiaro che la rete dei rapporti personali e collettivi tiene oppure si sfilaccia, in base alla disponibilità o alla resistenza nei confronti di un atto di fiducia essenziale verso la vita e verso gli altri.

Non a caso, i vari populismi e sovranismi – i nuovi spettri che si aggirano non soltanto per l’Europa ma per il mondo intero – affondano le loro radici proprio nel terreno del sospetto e dell’esclusione a prescindere, poiché ritengono l’altro con la sua diversità di etnia, di cultura, di religione, come colpevole di esistere sino alla (impossibile) prova contraria. 

La risposta a tale situazione non può venire che dal basso. La risposta è il moltiplicarsi di uomini e donne che si assumano in prima persona il rischio di una fiducia senza garanzie e perciò siano capaci di rigenerare in tutti questa fiducia, anche a costo di esporsi all’incomprensione e al fallimento. Uomini e donne che con la loro ricchezza di umanità «fanno legame», e proprio così suscitano e risuscitano – spesso contro ogni speranza – il gusto di vivere insieme. Il teologo Christoph Theobald, nel saggio Lo stile della vita cristiana (Qiqajon 2015), scrive:

«La nostra cittadinanza poggia in ultima analisi su un atto di fede: una fede che crea legami perché dà fiducia all'emergere della libertà altrui […]. Perché, nella crisi della dimensione politica, la nostra convivenza non può più fondarsi su un semplice istinto di sopravvivenza, che si rivela di vista corta. […] La crisi del legame politico ci invita a riscoprire che, nelle minacce che pesano su di noi, la fede elementare in una possibile armonizzazione politica della pluralità di esseri unici, che noi formiamo, resta sempre offerta come una grazia, e i portatori di questa fede sono donati come veri e propri carismi».

La fede per il vivere insieme

In tale prospettiva il compito prioritario della comunità ecclesiale sul piano pubblico non è certo limitarsi a ripetere discorsi riguardanti il comportamento etico e l’impegno politico. Si tratta piuttosto di agire alla radice dell’immaginario sociale, per rivelare, ripristinare e ricreare in ogni cittadino la libera capacità di riconoscere la fonte nascosta eppure presente delle risorse di partecipazione, collaborazione e solidarietà, che rendono la polis un luogo vivibile e ospitale per chiunque.

Papa Francesco nell’Evangelii gaudium sottolinea che l’evangelizzazione ha strettamente a che fare con tale proposta di umanizzazione, che si fonda nell’iniziativa di Dio attraverso Gesù Cristo:

«La proposta è il regno di Dio (Lc 4,43); si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali» (n. 180).

La presenza cristiana, secondo la legge dell’incarnazione, è chiamata così a essere testimonianza attraente dell’incontro sempre imprevedibile tra il regno di Dio e la città degli uomini.

L’evento di tale incontro esige un’azione pastorale, che esca da una pura logica di conservazione o restaurazione, per mettersi invece a servizio di quel «bisogno di fiducia», che è diffuso nella nostra società dell’incertezza, ma attende di trovare nell’Evangelo di Gesù Cristo la forma e la forza, che gli sono necessarie, per divenire autenticamente degno dell’uomo.

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