m
Moralia Blog

Ne uccide più la lingua della spada. Del parlare e della verità

I recenti attacchi alla persona e all’operato di papa Francesco costituiscono motivo di preoccupazione e impongono una riflessione, pacata ma non priva di fermezza e stile evangelico. Questo post, espressione della Redazione di Moralia, intende collocarsi nello spazio di un’opinione pubblica sempre più invasa da notizie artificiosamente costruite (fake news) a fini ideologici e di adesioni (o dissensi) che, quando superano lo stadio del puro «like» dei social, tendono ad assumere forme aggressive e faziose. Vogliamo offrire la nostra competenza e il nostro stile propositivo per illuminare gli elementi fondamentali di una comunicazione umana attenta all’oggettivo della verità e al contesto della sua imprescindibile dimensione relazionale. Riteniamo che questo testo possa rappresentare un sincero servizio all’intelligenza di tutti, per un discernimento di quanto oggetto di dibattito pubblico.

La traduzione che troviamo nelle nostre Bibbie o anche quello che abbiamo appreso al Catechismo (o più semplicemente abbiamo udito fin da bambini) dell’VIII comandamento è: «Non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo», spesso decurtato in un «non dire falsa testimonianza» e anzi ulteriormente semplificato in un «non dire bugie». Non è una traduzione sbagliata: è solo parziale.

«… contro il tuo prossimo»

Sebbene nell’Esodo la testimonianza sia definita «falsa» e nel Deuteronomio «vana», entrambe le versioni riportano l’espressione «contro il tuo prossimo»: la Parola e la parola nell’AT (e poi con più forza nel NT, basti pensare al logos giovanneo) non è mai astratta dal rapporto. Anzi: è essa stessa rapporto. Dio crea l’uomo con la sua parola chiamandolo non alla semplice esistenza mondana, ma all’essere «logologico»: l’uomo gli può rispondere. Dio comunica sé stesso per il fatto stesso di comunicare: dalla parola ad extra come parola creatrice, alla parola ad intra nell’incarnazione della Parola. Ed è comunicazione di verità e amore.

L’eliminazione di «contro il tuo prossimo», non è semplificazione indifferente: essa sposta l’accento del versetto stesso. La parola testimoniata perde il suo carattere relazionale per rivolgersi maggiormente alla verità astratta. Esagerando i termini: il versetto non è più etico e giuridico (di possibilità di relazioni giuste e pacifiche all’interno della comunità), ma è filosofico (di possibilità di conoscenza della verità).

Potremmo quindi totalmente parafrasare il testo e indicare l’VIII Parola come un: «amare è imparare a dire la verità», perché la Parola ci ricorda profondamente la capacità che la parola ha di distruggere o costruire la relazione interpersonale. L’assenza o l’abbondanza uccidono.

La parola come atto (morale) umano: relazione e realtà

La parola è atto umano: l’uomo non la vive come fenomeno puramente naturale, ma come evento che impegna la sua libertà e quindi è anche un compito. Un compito che spesso richiede coraggio. Disattendere questo compito significa mentire: tradire la relazione e la realtà con la parola. Perché in questo «imparare a dire la verità» ci sono due poli: la relazione e la realtà.

Ma prima di incontrare, di generare, di nutrire (o, al contrario rinnegare, distruggere, mortificare…) il rapporto con gli altri, come atteggiamento morale, ci si deve aprire all’autenticità con sé stessi, espressione di sé e dinamica del divenire ciò che si è. Il primo «alter», il primo «tu» cui ci si apre, nella verità, sono io per me stesso.

Nella comunicazione vera il destinatario è affermato e confermato nella sua dignità di persona: di soggetto con valore di fine e non di mezzo. Parlargli è dargli la parola: suscitare in lui la parola che lo fa soggetto di verità nella comunicazione e nella comunione. Non si tratta solo di informare o istruire: si tratta di coinvolgere e rinnovare. Al contrario, la comunicazione falsa mette il destinatario in balia strumentale del destinante: egli lo dirotta a proprio uso e piacere. Ciò avviene non solo nella bugia, ma in tutte quelle forme pilotate o parziali di comunicazione in cui la «verità» non invera ma ideologizza, non umanizza ma funzionalizza. Anche una parola o un gesto apparentemente distratti possono rivelare la significanza o l’insignificanza dell’altro per me.

Non si tratta di parlare comunque, ma di parlare nella sintonia della verità e dell’amore. Una verità rinfacciata, proferita in malo modo, a tempo inopportuno, una verità che deprime, offende, allontana, disperde o «lava la coscienza», è verità senza amore. Non è relazione. Non è l’indicazione del comandamento VIII. Veritas caritatis, caritas veritatis (cf. Ef 4, 15).

Limitare il problema del parlare veridico a singole situazioni di conflitto sarebbe un atteggiamento superficiale. Ogni parola che pronuncio dev’essere vera; a parte la veridicità del suo contenuto, è il rapporto che essa esprime tra me e l’altra persona ad essere vero o falso. Posso adulare, vantarmi, essere ipocrita, senza dire una vera bugia, eppure la mia parola sarà comunque falsa perché io distruggo e dissolvo la realtà del rapporto. La parola singola fa sempre parte di una realtà globale che vuole esprimersi attraverso la parola. A seconda della persona con cui converso o da cui sono interrogato o della quale parlo, occorrerà che il mio discorso sia diverso, per essere veritiero. La parola veridica non è una grandezza costante in sé: è vivente come la vita stessa.

Lungi dall’idea di affermare che verità e menzogna abbiano lo stesso significato morale, la discriminante prima nel giudizio sulla moralità di una comunicazione non è il suo contenuto di verità, ma il suo essere espressione di relazione, di carità, di attenzione e di cura alla verità, a sé stessi e all’altro.

Ogni parola vive e ha la sua origine in un determinato ambiente. La parola detta in famiglia è diversa da quella detta in ufficio o in pubblico. La parola che nasce nel calore di un rapporto personale si raggela nella fredda atmosfera delle cose pubbliche. La parola di comando, che è al suo posto nei pubblici servizi, nella famiglia distruggerebbe i vincoli della fiducia. Ogni linguaggio ha il luogo che gli è proprio e non deve uscirne.

Per mezzo dei giornali e della radio il linguaggio pubblico è enormemente aumentato e ha prodotto come conseguenza una certa incapacità di distinguere i diversi linguaggi, cosicché, per esempio, è stata quasi distrutta la caratteristica specifica del discorso personale. Alla parola autentica si sosti­tuisce la chiacchiera. Le parole non hanno più peso. Si parla troppo.

Quando i confini tra i vari linguaggi si cancellano e le parole non hanno più una loro radice, un loro ambiente, il linguaggio perde veracità e nasce quasi necessariamente la menzogna. Quando i diversi ordinamenti della vita non si rispettano più mutuamente, le parole diventano bugiarde.

«Imparare a dire la verità» non è dunque soltanto una questione di atteggiamento personale, ma anche di esatta valutazione e di seria riflessione sulla situazione reale. Quanto più varie sono le condizioni di vita di un uomo, tanto maggiore sarà per lui la responsabilità e la difficoltà di «dire la verità». Chi dice Dio non può semplicemente cancellare il mondo reale in cui vive; altrimenti non parlerebbe dinanzi al Dio che in Gesù Cristo è entrato in questo mondo, bensì dinanzi a un qualche idolo metafisico.

Bisogna esprimere in parole il reale. In ciò consiste appunto il parlare veritiero. Ma allora si pone il problema ineludibile del «come» parlare. Si tratta di trovare caso per caso la «parola giusta»; è questione di uno sforzo lungo, serio e sempre crescente basato sull’esperienza e sulla conoscenza della realtà. Per dire come una cosa è realmente, ossia per parlare in modo veritiero, bisogna che gli sguardi e i pensieri indaghino in che modo la realtà è in Dio, per mezzo di Dio e per Dio.

La questione è appunto questa: come posso io mettere in pratica nella mia vita concreta, con tutti i suoi diversi rapporti, quel parlare veritiero di cui sono debitore a Dio? La veracità delle nostre parole, che ci è richiesta da Dio, deve assumere una forma concreta nel mondo.

Nuovamente si vede come sia riduttivo costringere l’VIII comandamento entro il precetto negativo «non mentire». Il problema morale è comunicare con maggior verità e amore ciò che può essere di servizio all’uomo. È quindi un precetto positivo, perché:

  • in ogni comunicazione ho la possibilità (e quindi anche il dovere morale) di mettere me stesso a servizio dell’altro, in amore e verità. Qualunque cosa io voglia comunicare debbo con quel gesto (parola) comunicare la mia disponibilità per l’altro. Perché io non «dico cose» ma «dico me stesso».
  • ciò che io possiedo come «ricchezza mentale» – dall’orario di un treno a una competenza scientifica a un’esperienza spirituale – deve essere sempre tenuto a disposizione degli altri. Sono sempre debitore di ciò che ritengo vero, sia esso una notizia, sia esso un’elaborazione della mia mente.
Storicità e interpretazione

La verità nella comunicazione, e in particolare nell’aspetto della conoscenza della realtà, comporta due elementi essenziali: la storicità e l’interpretazione.

La «comunicazione come verità e relazione» ha un valore dinamico che si sviluppa nella e attraverso la storia. È un processo in permanente divenire che presuppone una maturazione graduale dei soggetti umani e dell’umanità stessa. Non si intende con questo escludere punti di riferimento essenziali e ineludibili, ma indicare il metodo attraverso cui l’uomo giunge alla loro assimilazione mediante un processo sempre segnato dalla cultura e dalle stesse dinamiche esistenziali del soggetto.

La storicità stessa postula il carattere di interpretazione. Non esiste «conoscenza» allo stato puro neutrale, poiché ogni conoscenza è mediata dalle precomprensioni che ciascuno porta in sé. Vi è una differenza notevole tra il «capire» e il «comprendere»: questo significa «prendere dentro» il mondo dell’altro e lasciarsi, nello stesso tempo, coinvolgere in un processo di scambio nel quale entrano in gioco le componenti razionali, affettive, spirituali, psicologiche… 

Ouaknin (Le dieci Parole, Roma 2001, 223-225) ama tradurre lo ta’ane con «non far soffrire il tuo prossimo con le tue risposte»: ecco tre piccole regole per imparare a coltivare la veracità e la veridicità, nell’attenzione alla relazione e alla realtà.

  1. Rendendomi conto di chi mi spinge a parlare e di che cosa mi dà diritto di farlo.
  2. Rendendomi conto del luogo in cui mi trovo.
  3. Collocando in questo contesto l’oggetto di cui parlo.

In conclusione: l’VIII parola ci richiama al linguaggio dell’inedito e dell’inesauribile che feconda i rapporti umani e ne rispetta le dinamiche più profonde, favorendo la crescita nella verità e lo sviluppo nella comunione. La Redazione di Moralia invita, pertanto, ad astenersi dalle parole che – magari col pretesto della verità – spezzano relazioni e distruggono fiducia e comunicazione.

Commenti

  • 22/10/2018 fcomp@pust.it

    Se questo è l'appoggio dell'ATISM a Papa Francesco, il testo mi fa ricordare la prassi parlamentare/assembleare di quando qualcuno, non volendo esporsi, dice di non essere contro la sostanza della proposta ma al metodo adottato.

Lascia un commento

{{resultMessage}}