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Moralia Blog

Lo strano caso del burkini in spiagga – I parte

Il 28 luglio 2016 il sindaco di Cannes ha vietato alle donne musulmane di indossare il burkini (il costume integrale che copre tutto il corpo) sulle spiagge della città, poiché non sarebbe «un abbigliamento rispettoso della morale e della laicità». L’ordinanza (con sanzione di 38€) adduceva come motivazioni il rischio per l’ordine pubblico e l’igiene; la sicurezza di spiagge e zone balneari. Anche i colleghi di Villeneuve-Loubet (Costa Azzurra) e Sisco (Corsica) hanno seguito l’esempio; altri hanno annunciato l’intenzione di farlo. Sul versante opposto, alcuni hanno accostato all’immagine islamica, quello di alcune religiose cattoliche che in spiaggia portano il velo e che il provvedimento non bandisce!

La Francia non è nuova a provvedimenti sull’abbigliamento femminile islamico (bando del burka integrale nei luoghi pubblici; divieto del velo hijab nella scuola), ma la polemica non ha tardato a montare, trovando nel premier Manuel Valls un sostenitore dei sindaci proibizionisti. Egli ritiene che l’indumento introduca un progetto politico che «non è compatibile con i valori della Francia e della Repubblica».

Il Consiglio contro l’islamofobia in Francia ha presentato ricorso d’urgenza al Consiglio di Stato, che a fine agosto ha bocciato il provvedimento in quanto «violazione grave e apertamente illegale delle libertà fondamentali, che sono la libertà di movimento, di coscienza e la libertà personale». L’Alto commissariato Onu per i diritti umani ha elogiato tale decisione, poiché elimina una discriminazione che può solo fomentare intolleranza e reazioni xenofobe, invece di favorire la pace sociale.

Due riflessioni sul piano etico

Sul piano etico, mi sembra di poter evidenziare almeno due questioni. La prima riguarda il processo d’inclusione delle culture non-europee in contesto di immigrazione. La Francia rappresenta una forma forte di eurocentrismo che ritiene che tutti debbano adeguarsi allo standard europeo come apice della civiltà. In tal modo s’impone un adeguamento forzoso a un modello di laicità indifferenziato (presentato come neutrale e virtuoso), dove i simboli religiosi e culturali differenti devono essere banditi dallo spazio pubblico per livellare tutte le identità. Pretendere di creare unità in termini di uniformità è un’illusione e rischia di condurre al conflitto (Babele); l’alternativa praticabile è, invece, la convivialità accogliente e rispettosa delle differenze (Pentecoste).

La seconda: in una società democratica è possibile ancora pensare di imporre per legge limitazioni alla libertà individuale in un campo così intimo come l’esposizione/nascondimento del corpo? Fatte salve questioni d’igiene e di decoro, non dovrebbe essere lasciato alla determinazione del singolo ciò che riguarda intimità e pudore. Anche alcune scelte nell’abbigliamento delle star dello spettacolo sulla Croisette di Cannes possono risultare eccessive, di cattivo gusto e perfino volgari, ma nessuno si sognerebbe di vietarle con un’ordinanza! È ingiusto allora proibire l’occultamento del corpo, se si tratta davvero di una scelta libera e consapevole, mentre si accetta (o si esalta) l’estremo opposto.

Corpo delle donne: ancora gioco di potere?

Sorge però il dubbio che qui sia all’opera una vecchia abitudine patriarcale che, nel parlare del corpo delle donne e decidendo su di esso, mette in scena un sottile gioco di potere e di controllo. Come suggerisce suor Alessandra Smerilli è opportuno che quando i maschi si interessano all’argomento dedichino «un “minuto di raccoglimento”, per fare prima memoria delle infinite ferite che quei vestiti e quei veli hanno coperto e coprono. E dopo, solo dopo, inizino a parlare, e sempre a bassa voce e in nostra compagnia. Altrimenti non solo si dicono sciocchezze, ma si continua a fare violenza sui nostri corpi, sui nostri veli».

 

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