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Moralia Blog

La lezione della Brexit: Europa sì, ma diversa

Sembra strano a dirsi, oggi. Ma la prima volta che ho avuto la sensazione di essere per davvero cittadino d’Europa è stato proprio a York, in Inghilterra: eravamo in un taxi, insieme, io, italiano, Cristina, spagnola, Plato, greco, Mary, inglese, e Aurianne, francese. Tutti nel Regno Unito per motivi di ricerca, ci siamo guardati e ci siamo detti: «We are Europe». Cioè, «noi siamo l’Europa».

È la nostra, d’altronde, la generazione che in Erasmus si è innamorata, che ha imparato a viaggiare low cost, che ha coltivato amicizie lunghe migliaia e migliaia di chilometri, che è cresciuta senza passaporto, che ha studiato l’inglese, che ha sognato di vivere in un mondo senza frontiere. I giovani dell’89, poi, erano nati tra le macerie di un muro che, finalmente, crollava grazie alle picconate di chi credeva in una crescita sociale ed economica per tutti sostenibile, dall’Ovest all’Est.

Che cosa adesso è rimasto del progetto di un’area comune di libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali, dopo il referendum che ha deciso per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea? Non sappiamo.

Un Regno Unito spaccato in due

È un sogno, quello dell’Europa, andato in frantumi. Non conosciamo, ancora, quale saranno le condizioni che Bruxelles detterà al Regno Unito per l’exit. Possiamo però immaginare che dall’altra sponda della Manica l’addio della Gran Bretagna al progetto di integrazione europea comporterà sacrifici notevoli, che andranno direttamente ad incidere nella vita dei cittadini (si pensi solo ai settori dell’istruzione, della ricerca, della sanità, del turismo, del commercio e della cultura gastronomica).

Certo, la forbice di distacco tra il «leave» (lasciare) e il «remain» (rimanere) è di soli 3,8 punti percentuale: la differenza l’ha fatta, quindi, poco più di un milione di votanti. Un Regno spaccato in due, insomma. Non solo da un punto di vista geo-politico (in Scozia e in Irlanda del Nord ha vinto il «remain»), ma anche da un punto di vista generazionale: il 75% dei giovani tra i 18 e i 24 anni ha votato per rimanere in Europa. Come dire – per riprendere le parole di Riccardo Staglianò su La Repubblica di sabato 25 giugno-, «il paradosso finale, confrontando le aspettative di vita, è che hanno vinto i vecchi, ma le conseguenze le pagheranno i giovani». Tutti i giovani europei, ci permettiamo di aggiungere, non solo quelli inglesi.

Voto inglese: una risposta «di pancia»?

Salutare l’Europa ed abbandonare, così, il sogno uno spazio di pace e di necessaria armonizzazione tra i diversi ordinamenti interni, significa alzare le frontiere e chiudere gli occhi dinnanzi ad un mondo sempre più globale e interconnesso. È, ancora una volta, la paura del diverso, dello straniero, dell’altro da sé che alimenta forti istanze nazionalistiche facilmente traducibili in sentimenti xenofobi.

In questo senso il voto referendario inglese è da leggersi come una risposta «di pancia» al crescente fenomeno dell’immigrazione che le istituzioni politiche non riescono a gestire; un tema, com’è ovvio, strettamente connesso alle questioni di pubblica sicurezza. L’incertezza sul punto degli interventi dell’Unione Europea è evidente. Ed è pure che evidente che i sessant’anni di integrazione europea non sono bastati per identificare un comune sentire di «popolo» europeo: ci sono (anzi –è il caso di dirlo adesso-, c’erano) gli inglesi, ci sono i francesi, ci sono gli spagnoli, ci sono gli italiani, ci sono i portoghesi, ci sono i tedeschi, ci sono i polacchi…e gli europei dove sono?

Battuta a parte, vi è la mancanza di una «cultura» europea che riesca ad essere occasione di sintesi e momento di incontro tra le diverse e ricche «culture» nazionali. È emblematico che si è provveduto ad una unificazione monetaria (l’euro) senza prima pensare ad una unificazione politica, come se a «contare» fossero, prima di ogni altra cosa, interessi economici e finanziari.

Sognare un’Europa diversa, rimanendo europei

Il referendum ha destabilizzato l’Europa. Ed un popolo inglese che, per la maggior parte, europeo non si sentiva, ha scelto. Un sì o un no possono determinare il futuro delle relazioni internazionali nel Vecchio Continente? La risposta è affermativa dal momento che quel sì e quel no rappresentano l’espressione più alta della sovranità popolare, della democrazia.

Di fronte al Brexit c’è il rischio –in realità già verificatosi- che qualcuno possa credere che l’Europa per la sua sopravvivenza ha bisogno di continuare ad essere un affare di esperti e di tecnici, che le masse, il popolo, certe decisioni non le possono (e non le devono) prendere. Ma in realtà, se una lezione c’è dal voto inglese, questa è proprio che l’Europa ha bisogno della democrazia. Se i cittadini inglesi hanno votato per il «leave» è perché, come già detto, molto probabilmente, cittadini europei non si sentono. E i cittadini europei non si sentono tali proprio perché esclusi in larghissima parte dai centri decisionali delle istituzioni dell’Unione.

L’Europa della tecnocrazia e dell’austerità, quella «tedesca» se vogliamo, non funziona. Dall’Inghilterra è arrivato un segnale forte, ma al tempo stesso sproporzionato, irresponsabile e non riguardevole degli effetti a lungo termine. È necessaria sì un’Europa diversa, rimanendo però in Europa. Dopo tutto, quello dell’Europa, è un sogno in cui vale ancora la pena crederci. Insieme, ovviamente.

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