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Moralia Blog

#JMJ2019 a Panama. Vocazione: del singolo, o della Chiesa?

In questi giorni si sta svolgendo la XXIV Giornata mondiale della gioventù a Panama, e il titolo è «Ecco la serva del Signore; avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38).

Il tema della «risposta», della «vocazione» ha scandito le tappe e le riflessioni di preparazione a questo evento. Desidero quindi soffermarmi anche io sul tema della «vocazione».

Quando parliamo di «vocazione», spesso il nostro primo riferimento è a quella «vocazione» che «informa» (nel senso che «dà forma») la nostra vita e quindi il pensiero corre al sacerdozio, alla vita consacrata o al matrimonio, insomma a quella «vocazione» spesso chiamata «scelta irrevocabile di vita».

Ma queste sono «vocazioni» – al plurale – e in quanto tali declinano l’unica «vocazione» – al singolare – dispiegandone il significato senza esaurirne l’intero spettro delle potenzialità (il che significa che le vocazioni non sono solo tre!).

La vocazione al singolare, quindi, è la «vocazione comune alla santità», caratteristica di ogni cristiano. La vocazione è la chiamata in Cristo:

«Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche, pienamente, l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes, n. 22).

E la comprensione, interiorizzazione, spiegazione della vocazione, intesa in tal modo, è il compito specifico che il concilio Vaticano II affida alla teologia morale:

«la sua riflessione scientifica, maggiormente fondata sulla sacra Scrittura, possa illustrare la grandezza della vocazione che i fedeli hanno ricevuto da Dio in Cristo e la conseguente esigenza che essi devono avere nel portare frutti nella carità per il bene del mondo» (Optatam totius, n. 16).

Vocazioni personali o ecclesiali?

Che cosa ci può suggerire questo passaggio del Vaticano II?

La vocazione, proprio per il suo fondamento (Cristo) e il suo obiettivo (frutti di carità per il bene del mondo), si può incarnare in modalità decisamente più variegate rispetto al dettato del diritto canonico.

È evidente che ogni vocazione personale, quale che sia, è altresì contemporaneamente ecclesiale. Tuttavia ritengo che uno dei compiti della teologia morale, se vuole essere fedele al mandato di «illustrare la grandezza della vocazione», sia quello di dare spazio maggiore anche (non in alternativa!) alle vocazioni strettamente ecclesiali, ovvero delle singole comunità locali e della Chiesa universale.

Il compito di illustrare, approfondire, rilanciare le vocazioni personali non è certo terminato, ma a mio parere esso va integrato con una migliore riflessione sulle vocazioni delle comunità e della Chiesa universale.

La vocazione umana e cristiana, nelle sue forme sempre particolari e personali, non esiste senza la co-spirazione dello Spirito che abita nello stesso tempo nel cuore di ogni fedele e della Chiesa tutta (Lumen gentium, n. 4).

Le nostre vocazioni personali (nel loro ventaglio) «in-formano» le nostre comunità e le nostre comunità «in-formano» le nostre vocazioni personali. Indubbiamente. Ma dobbiamo iniziare a discernere insieme sulle vocazioni nella vocazione delle nostre comunità e della Chiesa, in modo sostanziale, non in modo giustapposto o estrinseco.

Siamo, in qualche modo, già abituati e abbiamo già abbondante letteratura circa il «discernimento» personale (soprattutto quello nelle forme canoniche), che ci aiuta ad aderire a quella tra le vocazioni cui siamo chiamati.

Meno spazio è stato dato al percorso da compiere comunitariamente, insieme, anche se uno stile sinodale sta iniziando a prendere piede. Altre sfide e appuntamenti ci attendono come, ad esempio, il prossimo Sinodo sull’Amazzonia o le questioni di viri probati e del diaconato femminile.

Gli strumenti, gli stimoli, le piste di riflessione che la teologia morale – in collaborazione con le altre discipline teologiche e in particolare la teologia pastorale – può offrire all’interiorizzazione del tema «vocazioni» devono saper declinarsi non solo sul livello personale ma anche collettivo, comunitario, ecclesiale.

Possiamo sintetizzarli, semplicemente, in:

a) strumenti/piste per l’identificazione (purificazione, individuazione) dei bisogni oggi emergenti e dei mezzi da impiegare per provare a rispondere alle esigenze del popolo di Dio;

b) strumenti/piste per l’attivazione di luoghi/tempi di discernimento collettivo.

Non sto affermando che non esistano tali strumenti/piste, o che nelle singole realtà non vi sia nulla di tutto ciò. Sto, invece, indicando, in tal senso, una pista di riflessione per la teologia morale: un tematizzare più esplicitamente il passaggio da un vissuto ecclesiale «organizzativo» a un vissuto ecclesiale «generativo», capace di conciliare le vocazioni individuali ed ecclesiali in modo più stretto e intimo, che mantenga, in crescendo, la sua tensione «nel portare frutti nella carità per il bene del mondo».

 

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