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I nuovi braccianti digitali. Verso un nuovo luddismo?

Luigi Einaudi affermava: «Perché noi, studiosi, pubblicisti, professionisti, industriali, abbiamo la febbre del lavoro? Perché per noi il lavoro non è fatica, ma gioia, ma vita. Perché ci parrebbe di morire veramente, qualora ci fosse negata la gioia di lavorare, di vedere l’opera nostra crescere sotto i nostri occhi e compiersi».

E Giovanni Paolo II nella Laborem exercens: «Il lavoro umano è una chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo».

Oltre al lavoro che non c’è, dramma dei nostri giorni, in questo mese di ottobre in cui la storia ci ricorda la Rivoluzione russa, qual è lo stato del lavoro nella «rivoluzione» attuale, quella digitale?

L’implementazione dell’intelligenza artificiale nel processo produttivo ci fa registrare una sorprendente inversione dei ruoli nel rapporto uomo-macchina, e la nascita di nuovi lavori su cui è interessante concentrare la nostra attenzione. Qualcuno li chiama braccianti o mezzadri digitali, in inglese sono i labeler, gli «etichettatori».

Il loro lavoro consiste sostanzialmente nell’addestrare un’intelligenza artificiale a riconoscere la realtà, a distinguere un elefante da un caseggiato, una brocca d’acqua da un ananas, etichettando immagini su immagini in modo tale che la macchina sappia poi autonomamente fare le distinzioni che per l’essere umano sono ovvie, mentre, per la macchina non addestrata, impossibili.

Le macchine ci daranno il lavoro?

Questi lavori sono pagati cifre indecorose, circa 2,50 dollari all’ora, e sotto questo profilo certamente non rispettano la dignità della persona. La domanda che ci poniamo è: la medesima dignità sarebbe violata ugualmente, se per fare il labeler si ricevesse un compenso congruo?

Una risposta possibile e sensata non è così immediata: a ben guardare viene chiesto all’essere umano di esprimere proprio quella differenza umana che la macchina non è in grado di imitare in modo nativo. Com’è stato fatto notare, il lavoro è dignitoso nel momento in cui è actus personae, espressione essenziale della persona (Caritas in veritate, n. 41; Laborem exercens, n. 24) attuazione di sé nella piena integrazione con gli altri. Paolo VI insegnava che «ogni lavoratore è un creatore» (Populorum progressio, n. 27).

Il labeler svolge un lavoro indispensabile e non diversamente configurabile. Qui vi è un primato del lavoro sulle cose, ma nello stesso tempo tale lavoro ha come fine di lungo periodo il primato delle cose sul quel lavoro umano. Il capovolgimento, che ci fa tremare le vene ai polsi, consiste nel fatto che è la macchina che inizia a dare lavoro all’uomo, inteso ormai come fattore produttivo elementare.

Vi è una soggettività del lavoro, ma così formalizzata che si potrebbe obbiettare che diventi fattore di produzione, pura tecnica. Il lavoro è anche un bene relazionale, ma quale relazione vi può essere per un etichettatore che lavora da casa, e non conosce il suo datore di lavoro se non attraverso delle relazioni mediate da un apparato digitale impersonale?

Sino ad oggi il progresso tecnico ha comportato un aumento sia della capacità produttiva, sia della qualità del lavoro e delle capacità del lavoratore, mentre ora il progresso tecnologico polarizza le posizioni, creando una voragine tra personale iper-specializzato da una parte e compiti minori, elementari, dall’altra. La questione è estremamente complessa e questo non è lo spazio per dirimerla fino in fondo, ma merita condividere qualche idea emergente.

Governare il progresso

Nel futuro non conterà aumentare la produzione ma inventare lavoro e, nonostante il favore che la rivoluzione digitale suscita, arriveremo a una nuova fase luddista se, come prevedeva Keynes, il progresso tecnologico sarà più veloce della capacità di inventare nuovi lavori. La tassazione dei ricchi per mantenere gli esclusi dal mondo produttivo non può essere una soluzione lungimirante, anche perché la globalizzazione tecnologica sposta la ricchezza lontano dai territori dove essa viene prodotta.

L’unica vera soluzione è un capitalismo più umano, che accetti di rallentare la corsa affinché quella medesima corsa non imballi irrimediabilmente il motore, renda ingovernabile il mezzo e abbia come unico esito possibile uscire fuori strada.

Questo è possibile non in forza di legge, ma solo in forza di una cultura e di un’educazione che partano dal basso, ma soprattutto dall’alto, da chi ha in mano le leve e la governance di questo tempo.

 

Luca Peyron è presbitero della diocesi di Torino, docente di teologia all’Università cattolica di Milano e di Spiritualità dell’innovazione all’Università di Torino. È autore di Incarnazione digitale (Elledici 2019).

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