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Moralia Blog

Eutanasia della bioetica?

La tesi è ardita, e il fatto che sia proposta da un presidente emerito del Comitato nazionale di bioetica non lascia indifferenti: la bioetica è morta per eutanasia!

«La bioetica è fallita, è fallita da tempo e per di più senza che nessuno se ne sia reso conto. Quella che doveva essere pensata come etica della vita si è trasformata in un’etica del potere: il potere di chi vuole creare artificialmente e a suo piacimento la vita in provetta, di chi vuole artificialmente e a suo piacimento manipolarla, e di chi pretende, sempre a suo piacimento e artificialmente, di sopprimerla». Lo sosteneva già nel febbraio 2014 il prof. Francesco D’Agostino commentando sulle pagine di Avvenire la notizia dell’approvazione della legge che in Belgio permette di praticare l’eutanasia sui minori, con il consenso dei genitori. Ora che è giunta la notizia del primo “suicidio assistito” eseguito su un adolescente (leggi), la profezia si rivela autentica, e il fallimento della bioetica appare in tutta la sua drammaticità.

La bioetica è stata soppressa dall’indifferenza diffusa di fronte alle molteplici denunce dei rischi di una legge che permette l’eutanasia pediatrica; dalla mancanza di un dibattito pubblico autentico su una norma che stravolge il senso della medicina e del rapporto di tutela dei genitori nei confronti dei figli; dall’ipocrisia che presenta l’uccisione di un minore come gesto di rispetto della dignità e di autodeterminazione assoluta; dalla «burocratizzazione legalistica del morire», che reintroduce in forma politicamente corretta «il diritto di vita e di morte del padre sui figli, che appariva cancellato come barbarico e immorale».

A fronte di una lettura così dura e sconsolata, mentre condivido la lettura del fenomeno e la gravità dell’avvenimento belga, mi permetto di dissentire sulla tesi in quanto tale. Non è morta la bioetica, ma un certo modo di fare bioetica! Precisamente quella che mette al centro della riflessione l’autonomia assoluta del soggetto, concepito in termini individualistici e autoreferenziali. Tale paradigma non è in grado di dar conto della fragilità della condizione umana e dell’interdipendenza che caratterizza la nostra specie, e proprio per questo è destinato a fallire, poiché si configura come potenzialmente escludente ogni condizione d’imperfezione/disabilità ed è incline alla «cultura dello scarto» (Evangelii gaudium, n. 53).

Ben venga la morte di una bioetica così concepita, perché dalle sue ceneri può ri-sorgere una riflessione sulla vita che finalmente pensi l’essere umano come prezioso proprio perché esposto alla possibilità di essere ferito, e perciò degno di essere protetto entro relazioni gratuite e asimmetriche, cioè estranee a logiche contrattuali e utilitaristiche. Se così muore l’illusione dell’autosufficienza e del ricorso alla tecnologia come risposta totalizzante per ogni problema esistenziale, allora c’è spazio per una ripresa seria dell’etica, che quando è autentica è sempre etica della cura.

 

Commenti

  • 29/11/2016 paolo.benciolini@unipd.it

    In almeno due occasioni (quella alla quale si fa qui riferimento, febbraio 2014, e l'intervista a M. De Bac, Corsera 18.9.2016) il prof. Francesco d'Agostino ha espresso il proprio autorevole parere sulla normativa belga che consente l'"eutanasia" anche ai minori.

    Ma è sul tema "eutanasia della bioetica" che intendo soffermarmi, riprendendo (e condividendo) le considerazioni che Giovanni Del Missier esprime nei confronti della "lettura così dura e sconsolata" che emerge dal commento di D'Agostino e che ora troviamo riproposta nella citata intervista.

    La mia personale esperienza (per un mandato nel CNB, a fianco di D'Agostino, ma ancora, per un decennio, nel Comitato etico della Regione Veneto e poi in quello dell'Azienda Ospedaliera di Padova) mi porta a toccare con mano, quasi ogni giorno, la vitalità, la serietà e l'impegno di quei comitati che nel Veneto sono denominati "comitati etici per la pratica clinica", e che cosituiscono una vera "rete" di grande valore per l'attenzione alle tematiche etiche intrinseche alla vita nelle strutture sanitarie, ospedaliere e territoriali.

    Nella sua intervista (che ricalca l'articolo del 2014), D'Agostino definisce i "comitati etici" come organismi "burocratici" e mostra di confondere i comitati etici per la pratica clinica con quelli per la sperimentazione: due tipologie tra loro profondamente diverse per finalità e competenze. Un conto è essere chiamati a fornire una valutazione vincolante in tema di sperimentazione dei farmaci, un conto essere interpellati a esprimere un parere (consultivo) quando gli operatori sanitari devono affrontare situazioni concrete, complesse, spesso drammatiche, per le quali non vi è, in partenza, una soluzione univoca e agevole.

    La composizione del gruppo multidisciplinare di questa seconda tipologia è diversa: oltre a esponenti delle professioni sanitarie (non solo medici!), l'approfondimento del problema richiede il contributo di competenze diverse (psicologica, giuridica, sociologica, di assistenza sociale...), e inoltre anche di chi opera nel volontariato e, a volte, di semplici utenti del servizio sanitario.

    La metodologia di lavoro richiede il rispetto dei contributi di ciascun partecipante ed esige la formulazione di una risposta motivata. Trattandosi di un parere essenzialmente etico e non vincolante, non deve stupire che la riflessione del gruppo possa contenere anche indicazioni tra loro differenti. Tutt'altro che "burocrazia"!

    Quanto, poi, all'ambito in cui si collocano i pareri richiesti, è evidente che a un comitato etico per la pratica clinica possano essere posti anche problemi relativi al fine vita, ma nelle situazioni concrete e nel pieno rispetto di una metodologia di approccio che rifiuta ogni tentazione di ipocrisia e di esercizio di potere sulle scelte della persona malata (perciò fragile e ferita), con la quale (e con i suoi familiari) va instaurata una relazione di aiuto rispettosa ed empatica.

    Paolo Benciolini

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