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Moralia Blog

(Dis)informazione e comunicazione: la corresponsabilità in causa


Esporre un cadavere è profanare il Nome di Dio: questo insegnano i Maestri con una esegesi apparentemente lontana dal testo scritto della Torah. Che i tagliateste del nostro tempo siano profanatori del Nome di Dio e della dignità umana non sembra ci sia dubbio. Ma un pensiero dovrebbero anche farlo tutti coloro che postano e ripostano sui social network le immagini di corpi straziati o decapitati.


Benedetto Carucci Viterbi, rabbino - (30 agosto 2015)

Il 27 agosto scorso, la cronista Alison Parker (24 anni) e il cameramen Adam Ward (27 anni) sono stati uccisi in diretta, a colpi di pistola, da Vester Lee Flanagan, ex dipendente dell'emittente TV (WDBJ-TV) per la quale i due giovani stavano realizzando un’intervista. Nella sparatoria è pure rimasta ferita l'intervistata, Vicki Gardner, direttrice della locale Camera di commercio.

L’episodio ha riproposto negli Stati Uniti d’America il dibattito circa l’accesso facile alle armi da fuoco, disputa in cui, in questa circostanza, sono intervenuti anche Barak Obama e Hillary Clinton. Non vorrei soffermarmi in questo breve post sulla diffusione delle armi da fuoco negli USA (tema che meriterebbe un’attenzione maggiore) e neppure su altri aspetti etici che questo episodio fa emergere (ad esempio la morte divenuta talmente “banale” – o rimossa – da necessitare di essere spettacolarizzata, oppure il narcisismo emergente), quanto interrogarmi sulla propagazione (spesso selvaggia) di immagini di violenza, che chiamano in causa non solo il giornalismo, ma più radicalmente il modo umano di comunicare.

Nel caso specifico: il video è stato ripreso dallo stesso assassino, che lo ha postato sui propri account di Facebook e Twitter, prima di suicidarsi. Alcuni programmi e notiziari televisivi, non solo americani, si sono interrogati circa l’opportunità di mandare in onda il video integrale o meno (e molte emittenti hanno mandato in onda il video all’interno di un “normale” notiziario). Mi chiedo, tra l’altro, se la domanda debba/possa essere ancora posta in questi termini, dal momento che le nuove tecnologie ci permettono di accedere facilmente a una quantità smisurata di video e immagini (talora ben più cruente di quelle del video in questione). E mi domando, quindi, come si possano distinguere, in termini etici e deontologici, una (dis)informazione e una comunicazione.

Provo a definirle così. L’informazione è l’offrire un contenuto che deve avere valore per chi lo ascolta, dal momento che comporta un aumento di conoscenza (e, pertanto, può anche essere utile a determinati scopi); in qualche modo è un processo unidirezionale, in cui chi comunica si assume determinate regole, nonché doveri professionali ed etici. La comunicazione, invece, è un processo relazionale, in cui non soltanto si trasmettono informazioni, ma si mettono in campo altre regole etiche e deontologiche, significati condivisi e la reciproca responsabilità.

Tornando al caso specifico: coloro che hanno deciso di mandare in onda il video non hanno reso servizio né all’informazione (le immagini del video non hanno aumentato la conoscenza, ma solo una spirale sempre più vorticosa di voyeurismo-esibizionismo), né, tanto meno, una comunicazione, dal momento che non hanno chiamato in causa la responsabilità dello spettatore.

Ma anche noi ascoltatori, spettatori, fruitori di notizie siamo responsabili, o quanto meno corresponsabili, del modo in cui ci vengono proposte le notizie. Non possiamo demandare tutte le “colpe” alla televisione, a Internet, alle nuove tecnologie (ovvero a mezzi, e non a persone). Non possiamo lamentarci della (dis)informazione quando siamo noi i primi, sconfessando il nostro ruolo attivo, a non chiamare in causa una comunicazione, o quanto meno delle regole etiche precise per l’informazione, rinnegando la nostra parte di responsabilità. La nostra complicità si attua ogni vota che subiamo passivamente la disinformazione, non cambiando canale, cliccando su immagini e notizie costruite per attirare la curiosità morbosa, leggendo articoli il cui titolo è stato concepito per farci abboccare, condividendo contenuti non verificati o superficiali, alimentando polemiche inutili e violente – basate il più delle volte sui pregiudizi e non sui dati riscontrabili – sui social… Non si tratta sempre e solo di omissione da parte nostra, spesso si tratta di connivenza.

Ben venga quindi la richiesta di chiare regole etiche e deontologiche che regolamentino determinate categorie di professionisti che si occupano della diffusione delle notizie, ma senza dimenticare che ciascuno di noi è coinvolto nella dinamica della circolazione delle stesse. Solo un esercizio corresponsabile e consapevole del proprio ruolo può portare a una reale informazione e a una reale comunicazione.

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