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Moralia Blog

Charleston: il mostro razzista e la società che lo genera

17 giugno 2015: un ragazzo di 21 anni uccide nove afroamericani in una chiesa metodista di Charleston, nel South Carolina. Dylann Roof è la spietata vittima di una ferita da sempre aperta nella coscienza e nella cultura degli americani: il razzismo.

Ridurre tale attentato al disagio di un ragazzo che nel tempo libero preferiva organizzare una strage che giocare a basket o ascoltare musica rap sarebbe una pericolosa mistificazione. L'orribile crimine si radica in un ambiente in cui ancora vive lo stesso razzismo vero e brutale degli anni Venti – quello delle croci infuocate e dei cappucci bianchi del Ku Klu Klan. Espulso e rigettato dallo spazio pubblico, esso si è inabissato come un fiume carsico, rendendosi invisibile, per continuare a scorrere e a nutrire piante di odio e di violenza.

Naturalmente le responsabilità sono sempre individuali e questo ragazzetto biondino dall’aria spaesata e confusa, cresciuto nella cultura della withe supremacy, ne avrà di enormi sulla sua coscienza. Ma le sue personali responsabilità si saldano a quelle di una società che non ha saputo superare davvero il suo peccato originale: aver pensato una società “nuova”, di persone titolari di diritti fondamentali – la vita, la libertà e il perseguimento della felicità – mentre nelle piantagioni del Sud o nelle fattorie del Midwest lavoravano uomini e donne in catene.   

 

Una cultura di odio razzista

Dylann non è, dunque, un omicida “per caso”, ma l’interprete di una cultura dell’odio e del razzismo, e lo conferma il luogo in cui ha compiuto il suo micidiale proposito. Si tratta, infatti di una chiesa afroamericana, una black church: un luogo che esprime come nessun altro la forza della cultura e della determinazione di tale popolazione.

Vi era un tempo nel quale gli schiavi erano invitati ad assistere al culto celebrato nella chiesa dei bianchi ma stando in fondo, in piedi e silenziosi. Dovevano cioè limitarsi a guardare il loro padrone che adorava il Signore, pregando perché egli continuasse a essere benevolente con loro. Un giorno però, alcuni chiesero di partecipare alla Santa Cena e, di fronte al rifiuto del padrone e del pastore che predicava, decisero che da allora un albero della piantagione sarebbe stato la loro chiesa.

In quel momento idealmente nacquero le chiese nere: quando degli schiavi decisero di credere in un Signore (Lord) diverso da quello che imponeva loro la schiavitù; in un Evangelo che non insegnava la sottomissione ma prometteva libertà e la giustizia. Non stupisce che fosse il libro dell’Esodo il paradigma della loro teologia e che le loro preghiere e i loro inni facessero riferimento a una “terra promessa” che li avrebbe accolti come persone “libere, grazie a Dio onnipotente finalmente libere” – per dirla con le parole con cui Martin Luther King concluse il suo discorso più famoso.

Ancora oggi le black churches – compresa quella Trinity Church di Chicago, in cui si convertì il giovane Barack Obama – sono un luogo simbolico dell’identità afroamericana; ancora oggi sono esse a formare le personalità più in vista della comunità; in esse si custodisce ancora la memoria delle lotte per i diritti civili. In questo senso Dylann non ha colpito a caso, come non colpirono a caso gli attentatori che oltre dieci anni fa in pochi mesi bruciarono decine di chiese afroamericane, in una di quelle ondate di razzismo violento e brutale che ricorrono nella storia recente degli USA.

Oggi l’America si interroga attonita e spaventata sulla psicologia di un giovane “mostro” ventunenne. Ma la tragedia del paese e dei suoi abitanti è che il mostro è stato generato da una cultura dell’odio che nè decenni di diritti civili, né le norme di political correctness e neppure un presidente afroamericano riescono a cancellare.

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