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Documenti, 5/2008, 01/03/2008, pag. 129

Preghiamo per il fratello maggiore. Commento di mons. Ravasi

G. Ravasi
Lo scorso 4 febbraio la Segreteria di stato ha diffuso una nota contenente le nuove disposizioni per la liturgia del Venerdì santo, a seguito del motu proprio Summorum pontificum di Benedetto XVI del 7 luglio 2007 (Regno-doc. 15,2007,457ss). La nota presenta una diversa formulazione della preghiera Oremus et pro iudaeis, che dovrà essere utilizzata «a partire dal corrente anno in tutte le celebrazioni» del Venerdì santo con il Messale del 1962 (cf. Regnoatt. 4,2008,89ss). Di seguito presentiamo un commento di mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura, comparso su L’Osservatore romano il 15 febbraio. L’analisi della preghiera che egli propone ruota intorno a due tipi di riflessione. La prima riguarda il testo: «La trentina di parole latine sostanziali dell’Oremus è totalmente frutto di una “tessitura” di espressioni neotestamentarie. Si tratta, quindi, di un linguaggio che appartiene alla s. Scrittura, stella di riferimento della fede e dell’orazione cristiana». La seconda è sui contenuti: «La Chiesa prega per avere accanto a sé nell’unica comunità dei credenti in Cristo anche l’Israele fedele. È ciò che attendeva come grande speranza escatologica… s. Paolo».

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«Dio disse: “Sia la luce!” e la luce fu!». Era intitolata «La luce, un simbolo religioso tra immanenza e trascendenza» la relazione con la quale il card. Gianfranco Ravasi è intervenuto – lo scorso 19 gennaio, nella sede dell’UNESCO a Parigi – alla cerimonia di apertura dell’Anno internazionale della luce e delle tecnologie basate sulla luce, che «mira ad accrescere la conoscenza e la consapevolezza» sul modo in cui tali tecnologie «promuovano lo sviluppo sostenibile e forniscano soluzioni alle sfide globali (...) nei campi dell’energia, dell’istruzione, delle comunicazioni, della salute e dell’agricoltura». Il prefetto del Pontificio Consiglio della cultura ha affrontato il tema della simbologia religiosa della luce comune a tante civiltà e culture, dalla teologia dell’Egitto faraonico a quella indiana dei Rig-Veda, dal buddhismo all'islam al «grande codice» della cultura occidentale: la Bibbia. Due gli aspetti su cui la relazione di Ravasi si è concentrata: la qualità «teologica» della luce, ovvero la luce come «analogia per parlare di Dio»; e «la dialettica luce-tenebre nel suo valore morale e spirituale».
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G. Ravasi
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G. Ravasi
Sotto il termine di «apocrifi » (letteralmente, dal greco, i libri «nascosti») si stende un’immensa letteratura: essa corre parallela ma autonoma rispetto all’Antico e al Nuovo Testamento che contengono invece i libri «canonici», ossia quelli riconosciuti dall’ebraismo e dal cristianesimo come testi sacri, ispirati da Dio. Questi documenti – esclusi dalla Bibbia ma non di rado molto amati e spesso adottati come base per l’iconografia, l’arte, le tradizioni, la letteratura sia nobile sia di bassa qualità (il Codice da Vinci di Dan Brown insegna…) – si distribuiscono anche nell’ultima fase dell’ebraismo anticotestamentario e fanno parte della letteratura religiosa giudaica.