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Teologia morale: a scuola da Kant

«È noto come in Kant si trovi, forse in maniera non del tutto coerente con la sua teoria generale sulla formazione delle norme, la medesima fondazione tanto della condotta cui si è moralmente tenuti nei rapporti con gli altri quanto per la condotta cui si è moralmente tenuti nei confronti di sé stessi».

Avere a cuore la teologia morale

Mi permetto di spigolare questo passaggio da un testo di B. Schüller[1] per evidenziare che chi ha a che fare con l’etica e la vuole imbrigliare in un sistema, quasi sicuramente non riuscirà nella sua impresa, perché c’è sempre qualcosa che di essa non riusciremo ad addomesticare.

È proprio il caso di Kant, nei confronti del quale da una parte si è eretto un altare per celebrare la fine di ogni eteronomia, e dall’altra qualcuno ha pure tentato la possibilità di parlare di una sua teologia morale; è sempre di Kant che si parla quando si cerca un padre per coloro che sventolano una morale del dovere e, allo stesso tempo, sempre di Kant si parla quando si rovista nelle sue opere per cercare addentellati pertinenti con l’utilitarismo.

Insomma, ci sono tutti i presupposti per dire che quando un autore è un grande autore, è pure un pozzo senza fondo a cui ognuno può attingere per capire questo o quell’aspetto del fenomeno morale.

A noi qui non interessa, innanzitutto, rispondere alla domanda: «Chi ha ragione?». Piuttosto ci preme sottolineare la polivalenza, la poliedricità, la capacità camaleontica del fenomeno morale, chiacchierando a partire da Kant e attingendo da lui qualche segmento di pensiero che non fa male a nessuno, soprattutto alla teologia morale. Ed è la teologia morale che noi in questo contributo abbiamo a cuore.

La teologia morale nel cuore del pensiero: tre suggerimenti

Nel primo capitolo della sua Fondazione della metafisica dei costumi, Kant tenta il passaggio dalla conoscenza comune della moralità all’indagine logica sulla natura dei concetti morali, ponendo le basi di qualunque metodo di ragionamento morale.

Questo primo segmento potrebbe suggerire alla teologia morale che se la «teologia» vuole fare «etica», e non semplicemente sociologia dei costumi, fosse pure religiosa, deve fornire «ragioni» per il proprio modo di pensare.

E se vuole fare etica, e non semplicemente per i cristiani, bisogna che prenda atto che il più grande problema oggi è la disintegrazione di alcune evidenze cristiane, a motivo della quale continuare a fare solo ermeneutica di esse non apporterà alcun avanzamento sul piano della comprensibilità del fenomeno morale.

Il passaggio sopraddetto conduce a costatare che l’imperativo categorico è insuperabile. Quest’ultimo, una volta preso sul serio – e questo è il secondo segmento da suggerire alla teologia morale –, non va confuso con la via seguita da Kant: una cosa è il contenuto di tale imperativo, che non credo possa non piacere, a meno di ammettere di voler essere immorali, un’altra cosa è la via per formularlo, della quale si può anche discutere.

Da qui il terzo segmento utile alla teologia morale: accordare il rispetto che Kant esige a tale imperativo categorico significa non solo affermarlo sul piano intuitivo come «dovere», ma svilupparlo in una riflessione normativa di questo tipo: se gli altri vanno trattati sempre come fini e mai come mezzi, allora c’è sempre da chiedersi:

  • in caso di tortura posso volere che il torturatore continui a torturare quell’individuo? Se fossi io la vittima, lo vorrei?
  • In caso di menzogna posso volere che un individuo dica una falsità? E se fossi io colui che viene ingannato, lo vorrei?
  • In caso di omicidio, posso volere che un individuo prema il grilletto di una pistola puntata alle tempie di un altro? E se fossi io colui che sta per essere ucciso, lo vorrei?

Insomma Kant ci insegna con il suo imperativo categorico che l’agente e il destinatario non possono condividere la volontà di essere torturati, ingannati, uccisi, il che significa che l’oggettività in etica consiste nel fatto che chi vuole riflettere seriamente su tali questioni non può non accettare che si è morali solo se si è disposti a trattare gli altri come sé stessi, in forza di una logica condivisione delle volontà. 

La forza della teologia morale è il confronto

Quanto abbiamo detto cerca di rispondere alla seguente domanda: da che cosa dipende che un’azione sia morale o immorale?

La lezione kantiana non è forse componibile con l’unico criterio teorico-normativo di valutazione dello spirito del Vangelo rintracciabile in ciò che Paolo scrive in Rm 13,8-10?

Invitiamo il lettore a leggerne il contenuto per poi trarne da sé le dovute considerazioni:

«Non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno di compimento della legge è l’amore».

 

Pietro Cognato insegna Teologia morale e bioetica presso la Facoltà teologica di Sicilia, l'Istituto di studi bioetici S. Privitera e la Facoltà di servizio sociale – LUMSA. Tra le sue opere: Fede e morale tra tradizione e innovazione. Il rinnovamento della teologia morale (2012); Etica teologica. Persone e problemi morali nella cultura contemporanea (2015). Ha curato inoltre diverse voci del Nuovo dizionario di teologia morale (2019).

 

[1] B. Schüller, La fondazione dei giudizi morali. Tipi di argomentazione etica in teologia morale, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, 81.

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