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Piccoli

XIV domenica del tempo ordinario

Zc 9,9-10; Sal 145 (144); Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30

Il c. 11 di Matteo si conclude con un appello agli «stanchi e oppressi» (kopiontes kai pephortismenoi, v. 28) appellati direttamente con «voi». In qualche modo lo sguardo di Gesù e nostro si posa sulle folle «stanche e sfinite» (eskylmenoi kai erimmenoi) di Mt 9,36, anche se la terminologia è diversa. Abbiamo di fronte un popolo oppresso politicamente e che non trova consolazione nell’insegnamento tradizionale; l’appello – passando dall’oggettivazione della terza persona plurale all’uso della seconda – accorcia la distanza, quasi consentendo a noi un’identificazione. A costoro, a noi, Gesù offre il suo giogo che promette gradevole e di peso leggero, presentandosi come nuovo Mosè.

EsodoRabba 12,2 oppone infatti i gioghi di ferro da cui Dio ha liberato Israele al giogo della Torah; la tradizione su questo è concorde: anche recitare lo shema’ del mattino è prendere su di sé il giogo del Regno, ometterlo è restare sotto il giogo del mondo.

Questo tema del giogo ricorre in maniera significativa in Sir 51,26. Dovendo e volendo ricercare la sapienza è necessario accettarne la disciplina e affrontare la fatica dell’istruzione. Il giogo è in questo caso un’immagine sapienziale, legata all’assidua frequentazione della Torah.

Se però il discepolo deve comprendere la croce nel proprio orizzonte, al modo del maestro, c’è da chiedersi fino a che punto il suo giogo sia dolce e leggero.

All’inizio della pericope Gesù ha benedetto, ringraziato e confessato il Padre seguendo in parte la formula tradizionale della beraka che, come è noto, è l’elemento base della preghiera ebraica e corrisponde a un modo di guardare e vedere la vita e la storia. Nella motivazione della benedizione si parla del fatto che Dio ha nascosto «ciò» (tauta, v. 25) senza precisare di più. Il ringraziamento non è preceduto da gesti o insegnamenti: non si dice che i missionari siano partiti e poi tornati riferendo successi; anzi, Gesù ha duramente rimproverato le città costiere del lago, perché le opere del messia si sono rivelate insufficienti per la loro conversione. Gesù ringrazia dunque per l’insuccesso che solo piccoli e poveri possono capire. L’aggettivo «piccoli» (nepioi, «infanti», «immaturi») non ha articolo indica perciò una qualità, non degli individui precisi: chiunque potrebbe essere piccolo e quindi capire il valore dell’insuccesso, secondo la logica del discorso della montagna.

Il «piccolo» potrebbe essere anche come il quarto figlio del seder di Pesah, quello che non sa formulare domande, perché ingenuo e privo di esperienza o come il peti dei libri sapienziali (cf. Pr 9,4).

Gesù si identifica con costoro, è un servo a cui Dio si rivela perché consente al piano divino e trova riposo in un giogo leggero, nel senso che può dare gioia per quanto duro sia. È colui che ha con Dio una relazione unica e non cerca conoscenze «altre», per esempio di tipo esoterico (cf. Sal 131,1): la Sapienza della Torah e dell’Evangelo al «piccolo» sono sufficienti.

Matteo ha in mente il modello dei molti «poveri» del Primo Testamento, i diversi servi del Signore, da Mosè (‘anaw, Nm 12,3) a David, pronto a riconoscere il proprio peccato; dal servo cantato da Isaia, in ascolto di Dio e indifeso di fronte al male, che è sullo sfondo di tutti questi «servi», a Geremia, con le sue drammatiche confessioni; fino al re messianico di cui parla Zaccaria 9,9-10.

Gesù è mite e umile di cuore (v. 29): il suo giogo è leggero, mentre la vita è pesante perché «sottomessa al giogo di questo mondo» (E. Nodet); egli è sempre in una stretta relazione d’ascolto e di vita con il Padre. Ed è questo progetto di vita e di sapienza che presenta a coloro che chiama: ascolto e comunione di vita col Padre fino alla croce.

Il vero ristoro o, più propriamente riposo (anapausis), non è la sospensione dell’azione o del percorso di fede per evitarne le conseguenze, e neppure trovarsi davanti un itinerario di vita semplificato che non comporti fatica, studio e decisioni, consiste invece nel dedicarsi a quello che sta più a cuore e dà al credente dignità e certezza di vita, come l’ascolto e il consenso alla parola del Padre.

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