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VII domenica del tempo ordinario

Lv 19,1-2.17-18; Sal 103 (102); 1Cor 3,16-23; Mt 5,38-48

«Se qualcuno ha accecato l’occhio di un uomo libero (āwilum), gli si accecherà l’occhio. Se ha spezzato l’osso di un uomo libero, gli si spezzerà l’osso» (Codice di Hammurabi 196-197): questa è forse la più antica attestazione scritta della legge del taglione. Hammurabi raccoglie leggi civili e penali senza un ordine per noi riconoscibile, ma dividendole in articoli e distinguendo tra uomini liberi e schiavi, donne, sacerdoti e sacerdotesse, proprietari. Lo scopo pare sia quello di costruire una società con equilibri interni riconoscibili e governabili. Nel caso specifico del taglione, si tratta di una società in cui non si vuole praticare la libera vendetta, ma si segue il criterio di un risarcimento pari al danno.

I redattori del Primo Testamento sanno riconoscere nelle esperienze culturali altrui, sia giuridiche sia religiose – anche pagane – esperienze valide, quindi condivisibili, perciò le assumono con gli opportuni adattamenti. Il diritto ebraico per esempio è ben consapevole che non si trae alcun vantaggio colpendo l’occhio corrispondente a quello danneggiato, stabilisce perciò risarcimenti pecuniari proporzionati.

Nella sua rilettura della Torah Gesù rivede anche questa norma di pura giustizia retributiva, benché contenesse già un elemento di benevolenza. La superiore giustizia del discepolo, quella di cui si trova un’eco anche al v. 47 con un probabile procedimento di inclusione («che cosa fate di straordinario», gr. perisson, come al v. 20 «se la vostra giustizia non supererà», gr. perisseuse), riguarda il caso di pignoramento (v. 40), di prestazioni coatte al confine dell’angheria (v. 41), di violenza economica (v. 42).

L’eccedenza cristiana è soprattutto nell’amare i nemici e supera la disposizione tradizionale di «amare gli amici senza essere tenuti ad amare i nemici».

In realtà la chiave di lettura di tutto è nel v. 48: «Siate perfetti (teleioi) come è perfetto (teleios) il Padre vostro celeste». Parrebbe un’impossibile imitatio Dei, ma è l’aggettivo teleios a esigere una riflessione.

Ha relazione con telos, normalmente tradotto «fine», e col relativo verbo teleo, «finire», «compiere». Come sappiamo, la parola «fine» in italiano può essere tanto femminile quanto maschile.

La fine indica la conclusione di una strada, di un itinerario, di un libro, di un essere nel tempo (la fine della vita), e così via. Il fine indica invece uno scopo, una meta verso cui si è incamminati fino al suo compimento (il fine della vita). L’uomo teleios è così l’uomo maturo, che ha fatto un suo percorso mirato avendo un obbiettivo.

Questi due significati si possono sovrapporre. Si pensi al tetelestai di Gv 19,28.30, dove convivono il banale «è finita» e il teologico «è compiuto». La morte come compimento del mistero della propria vita e della propria persona.

I discepoli sono chiamati a essere teleioi, non tanto perché impeccabili o non più soggetti a combattimento spirituale, ma come persone che fanno tutto fino in fondo, che cercano la propria maturità e la propria compiutezza, dando in tal modo all’aggettivo un senso dinamico. Essi devono sempre tendere a essere come il Padre, la cui perfezione è nell’amore, nella compassione e nella misericordia.

Nessuno può «meritare» questo amore, gratuito per definizione e che, come un fenomeno atmosferico, viene dal cielo investendo tutti senza distinzione. Gesù propone dunque autorevolmente un’etica teologale, fondata sull’essere e sull’agire del Padre, estranea alla logica della reciprocità e del contraccambio. Essa è, in certo modo, ricompensa a sé stessa, perché oltre che al compimento della Torah, conduce al compimento dell’uomo.

Riprendendo ora il testo da 5,17, si vede come esso sia strutturato con una certa abilità letteraria. I vv. 17-20 fungono da dichiarazione programmatica d’apertura; seguono sei «eccedenze» della Torah che non è sciolta o svuotata o abolita, ma esemplificata fino al suo fondamento ultimo. Di ogni articolo di questa legge si dice cioè da dove nasca e dove conduca come in un crescendo, che culmina nell’esortazione alla compiutezza dei discepoli e della stessa Torah al v. 48.

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