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Parlare nella verità

VI domenica del tempo ordinario

Sir 15,16-21; Sal 119 (118); 1Cor 2,6-10; Mt 5,17-37

La lunga pericope di Matteo (5,17-37) che leggiamo nella sesta domenica del tempo ordinario esige un’altrettanto lunga duplice premessa.

Si legge di frequente nei commentari che il testo è costruito su una serie di antitesi. Ora: l’antitesi è una figura retorica di carattere logico, che consiste nell’accostamento di due parole o frasi di senso opposto. Nonostante l’avversativo forte (ego de, tradotto «ma io» o «io invece» ai vv 22.28.32.34), le antitesi su cui sarebbe costruito il nostro testo sono solo apparenti. Il secondo membro infatti non contraddice il primo, semmai rimanda a un suo più profondo significato.

La conferma è al v. 17, in cui Gesù dichiara di non essere venuto per «sciogliere» nel senso di «azzerare» (katalysai) quanto detto dalle Scritture, ma per «riempire» (pleroo) nel senso di «compiere».

È necessario poi considerare ancora che al tempo di Gesù, come oggi del resto, non esisteva «il Giudaismo» inteso come qualcosa di unitario, neppure in senso normativo. Già Giuseppe Flavio indicava alcuni gruppi che compaiono anche negli Evangeli: farisei, sadducei, erodiani, zeloti… All’interno di ogni gruppo esistevano però differenze, o se vogliamo correnti, sicché la discussione era costante. Gli stessi farisei che paiono sempre in polemica con Gesù discutono per lo più con lui di problemi che all’epoca erano aperti e sui quali si tendeva a «mettere alla prova» un maestro per ascoltare e valutare la sua opinione.

Gesù appartiene a questo variegato universo. Il fatto di considerare vere e proprie antitesi questi versetti anziché discussioni intra-giudaiche ha indotto alla svalutazione di tutto un mondo, quello dei farisei specialmente, e alla teologia della sostituzione, dalla quale oggi è necessario prendere le distanze. Si veda, per esempio, l’ultimo convegno interreligioso tenutosi alla Pontificia università gregoriana nel maggio 2019 (cf. P. Di Luccio, M. Grillo, «Gesù e i farisei. Al di là degli stereotipi», in La Civiltà cattolica [2019] III, 370-379).

Ciò che domina in questi versetti è invece l’idea di sovrabbondanza fino all’eccedenza e Gesù consegna ai suoi questo criterio di eccedenza come criterio di vita.

Lo si vede bene in particolare al v. 20 a proposito della giustizia, ma riguarda prima di tutto l’adesione alle Scritture, Torah e Profeti, fin nei dettagli (vv. 18-19). Quanto alla giustizia, non si tratta certamente di giustizia distributiva o forense, ma della ṣedaqa attribuita ai patriarchi fino a Giuseppe (cf. Mt 1,19) e intesa come ascolto, riconoscimento e obbedienza fattiva al volere di Dio.

L’eccedenza riguarda soprattutto il rapporto col prossimo. Non basta dire: «In fondo non ho ammazzato nessuno!», si tratta invece di controllare la collera e con essa il linguaggio (vv. 21-26); così come il desiderio, che può condurre all’adulterio (vv. 27-30) con il divorzio come corollario.

Dal che si vede come la giustizia eccedente non riguardi solo i fatti constatabili, ma le più interne mozioni del cuore umano, che solo la persona può tenere sotto controllo.

C’è poi un’eccedenza che riguarda la parola (vv. 31-37), che sembra di particolare attualità.

Al di là della tematica del giuramento trattata da Matteo, dare spessore alle parole, usare un linguaggio onesto e leale, «chiamare le cose col proprio nome» togliendo la maschera a molti eufemismi – in breve quella che nel Nuovo Testamento va sotto il nome di parresia – è un tratto distintivo del discepolo e del suo modo di gestire i rapporti quotidiani.

Com’è noto, il termine compare nel greco classico da Euripide in poi e ha per lo più un valore positivo, come il sincero parlare del cittadino che vuol costruire la polis. Ha poi una sua fortuna in Giovanni e in alcuni padri della Chiesa e significa, etimologicamente, «dire tutto», ma segnatamente «parlare nella verità». Come tale quindi è sia una virtù civile, che contribuisce a costruire una società trasparente e giusta in ordine alla convivenza umana, sia una virtù evangelica.

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