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L'amore si fa carne

Natale del Signore

Giorno • Is 52,7-10; Sal 98 (97); Eb 1,1-6; Gv 1,1-18

La quarta domenica di Avvento ci ha consegnato una parola rara e, con essa, una pista da seguire. La parola è kecharitomene (Lc 1,28), dal verbo charitoo, che ricorre nel Nuovo Testamento solo in Ef 1,6 con un gioco di parole difficile da recuperare: «A lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato».

Il filo da seguire è ora quello della parola charis, che compare anche nella celebrazione del giorno di Natale. Maria ne è stata la prima destinataria, fatta segno della grazia divina, come le viene detto dall’Angelo; il participio perfetto passivo che le viene rivolto indica uno stato, qualcosa che, una volta cominciata, è efficace e continua. Tuttavia questa charis è finalmente apparsa a tutti gli uomini ed è apportatrice di salvezza (soterios) come dice la lettera a Tito (cf. 2,11) che ascoltiamo nella messa del giorno. È anche una delle parole che chiudono il prologo giovanneo nella coppia «grazia e verità» che ricorre due volte: senza articolo (v. 14, «pieno di grazia e di verità») e con l’articolo (v. 17, «la grazia e la verità»), a cui bisogna aggiungere «grazia su grazia» (v. 16 charin anti charitos). Al di fuori di queste, non ci sono altre occorrenze di questo termine nel quarto Vangelo, in cui invece compare più volte il lessico della «verità».

Questo ha fatto dire ad alcuni commentatori che in questa terminologia ci sia un influsso lucano-paolino, confermato dalla presenza del termine pleroma, «pienezza» (1,16). In realtà è necessario andare più indietro e vedere come il prologo giovanneo da una parte presenti Gesù come colui che racconta la storia di Dio fin dalla creazione, dall’altra appaia come un’anteprima dei temi principali del Vangelo stesso.

Riprendendo dunque la coppia «grazie e verità» o piuttosto «grazia e fedeltà» (Wengst), la sua fonte prima è Es 34,6, allorché, dopo l’episodio di idolatria del vitello, Dio si rivela «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà», Hesed wü’emet.

Tutti i termini elencati da Es 34,6 hanno un significato pressoché sinonimo: il loro accumulo indica solo un amore estremo, più prezioso di qualunque altra cosa, compresa la vita, e che è gratuitamente elargito. È un amore «storico», perché si rivela in una storia e corrisponde a un progetto, rispetto al quale Dio vuole un partner libero e liberamente consenziente. Mosè è una tappa di questa storia, perché Israele vive la Torah come dono di grazia (mattan Tora) e manifestazione/personificazione della Sapienza divina. Tutti questi elementi convergono su Gesù Cristo come massima epifania della charis divina.

Del resto il prologo è costruito con un climax dalla creazione all’incarnazione passando per un esodo del Logos (termine che apre il prologo, ma che non tornerà più nel corso del quarto Vangelo), in cui l’elemento costante è il carattere dinamico del modo di essere di Dio che, a sua volta, si interpella sulla storia, come si legge in Isaia nei versetti che precedono quanto si ascolterà nella celebrazione: «Ora, che cosa faccio io qui? – oracolo del Signore. Sì, il mio popolo è stato deportato per nulla! I suoi dominatori trionfavano – oracolo del Signore – e sempre, tutti i giorni, il mio nome è stato disprezzato. Pertanto il mio popolo conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: “Eccomi!”» (Is 52,5-6). Questo «eccomi!» conferma lo Hesed wü’emet che percorre, esplicitamente o meno, tutte le Scritture e di cui il «santo braccio» di Is 52,10 è una manifestazione. Nel testo profetico infatti la salvezza ha un corpo: è piedi (v. 7), voce (v. 8), occhi (v. 8) umani e braccio divino, immagine cara alla tradizione deuteronomista e che non bisogna liquidare come antropomorfismo, bensì coglierne il valore simbolico.

Come anche molti padri della Chiesa hanno scritto, c’è un’incarnazione progressiva a misura della rivelazione. Dio «scende» in mezzo agli uomini per visitarli e questa visita tutto rigenera, al punto che persino le pietre di Gerusalemme diventano vive (cf. Is 55,9). Ugualmente il Logos pianta la sua tenda in mezzo all’accampamento umano (cf. Gv 1,14) – e torna qui il tema del santuario mobile nel deserto – per condividere le peregrinazioni del suo popolo.

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