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Il Dio pastore

 

 

IV domenica di Pasqua

At 2,14.36-41; Sal 23 (22); 1Pt 2,20-25; Gv 10,1-10

Una doppia coppia di amen contrassegna questi pochi versetti (cf. 10,1.7), marcando due porzioni di testo legate tra loro dal simbolo della porta (thyra). Il contesto pone alcuni problemi, perché il linguaggio è al confine tra quotidiano e sacrale.

Si parla infatti di una aule delle pecore, dove il termine può designare il cortile recintato adiacente a una casa, ma anche un cortile antistante la tenda del convegno o del tempio, e al v. 10 compare il verbo thyo, che può voler dire tanto «uccidere», quanto «sacrificare». Dato che in generale il testo pare polemico, sulla scorta di Ez 34 su pastori buoni e pastori cattivi, questi termini si presentano ambigui, o per lo meno tali da essere letti e compresi dai contemporanei su un doppio livello.

Qualche commentatore pensa a una polemica politica antizelota grazie al termine lestes (v. 8), ma pare un indizio troppo scarso e l’ipotesi non trova molti consensi.

Di mezzo c’è un problema di legittimità: è un vero pastore non chi entra di straforo, saltando la recinzione (cf. v. 1) o manomettendola, ma chi passa per la porta facendosi riconoscere dal guardiano della porta stessa.

Fin qui parrebbe tutto liscio. C’è però qualche difficoltà: normalmente il recinto era un muro a secco sormontato da arbusti spinosi, antenati del nostro filo spinato, che impedivano l’accesso a ladri e bestie selvatiche.

La porta d’accesso era spesso custodita dal pastore stesso, che dormiva coricato sulla soglia difendendola col suo proprio corpo. Questo potrebbe spiegare il secondo amen, in cui la mediazione di Cristo verso la vita lo configura come «porta» per il gregge.

Quanto all’immagine del pastore, Jeremias ha spiegato che non è il pastore la vera guida del gregge, ma un capo addestrato a essere capobranco. È lui a riconoscere il fischio o il richiamo del pastore, allora s’incammina e tutto il gregge lo segue. Tanto che alcuni capi devono essere spinti (cf. 10,4), se sono troppo lenti a muoversi. Quanto al pastore, non sta in testa al gregge, ma piuttosto in coda: solo così può sorvegliare che nessun capo resti indietro o si stacchi dal gregge. Al massimo si colloca di lato, per guidarlo nelle deviazioni: a mano sinistra se il gregge deve andare a destra e viceversa. Inoltre può esserci un cane, animale però non troppo amato nel contesto biblico.

Nella aule può esserci anche più di un gregge (al tempo di Gesù la media era di trenta capi) con un pastore proprietario e magari un salariato di altro padrone, e questo giustificherebbe la precisazione delle «proprie» pecore di cui al v. 10.

Tutto questo per dire che l’evangelista ci dà un quadro solo in parte realistico, e forse neppure ce lo vuole dare. Ha in mente altro. Da una parte il già citato Ez 34, che si leggeva per la festa della dedicazione (cf. 10,22), dall’altra il modello del re-pastore o comunque del pastore-condottiero noto dal Primo Testamento: Mosè, Giosuè, Davide o Dio stesso (cf. Sal 79,13, 80,1). La costante meditazione dell’epopea dell’esodo, riletta dal secondo Isaia, dai profeti e dai salmi, è arrivata all’immagine del Dio-pastore aggiungendo una colorazione messianica (cf. Mi 2,12-13; Zac 10,3), a cui ricorre anche Giovanni per parlare del pastore che dà la vita per il gregge.

Tuttavia anche la porta può essere un simbolo messianico (cf. Sal 118,20), in quanto passaggio da un luogo a un altro, da un mondo a un altro. Siamo quindi davanti a un campo simbolico ricco, in cui il linguaggio poco realistico da una parte, l’immagine quotidiana, le molte reminiscenze (benché manchino citazioni dirette del Primo Testamento) inducono a pensare a svariati livelli di lettura, e dunque al termine paroimia di Gv 10,6, del quale si danno varie e diverse traduzioni: «parabola», «similitudine», «enigma» o, evitando di cercare un termine italiano e comunque sempre poco preciso, l’ebraico mašal, certamente corretto, ma che di fatto risulta poco accessibile per molti.

Siamo in ogni caso di fronte a un testo che vuole preparare alla morte di Gesù. Lo fa pensare il v. 10 dove, benché non si dica esplicitamente che la vita sovrabbondante dipende dal fatto che egli dona la sua, con quel «io sono venuto» (ego elthon) è come se avessimo una dichiarazione in tal senso.

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