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Credere e vedere

Nel brano dell'apparizione ai discepoli, il Vangelo di Giovanni celebra un credere già avvenuto: la beatitudine sta, infatti, in un vedere interno al credere. Ciò vale anche per noi.

II domenica di Pasqua

At 5,12-16; Sal 118 (117); Ap 1,9-11.12-13.17-19; Gv 20,19-31

«Perché mi hai veduto, tu hai creduto, beati quelli che non hanno visto e hanno creduto» (Gv 20,29). In una consueta chiosa omiletica gli ultimi verbi presenti nel versetto appena citato sono, di norma, intesi al futuro (così del resto era anche nella precedente versione della CEI: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno»). La beatitudine riguarderebbe quindi noi credenti che, a differenza di Tommaso, non abbiamo visto il Risorto, né, tanto meno, siamo stati nelle condizioni di «toccarlo con mano». Le parole di Gesù concernerebbero perciò il futuro della fede. I due verbi coniugati al passato (in greco sono entrambi un participio aoristo) tolgono validità a questa interpretazione. Il Vangelo di Giovanni, lungi dal proiettarsi nell’avvenire, vuole celebrare un credere già avvenuto.

In realtà anche quello di Tommaso fu atto di fede. L’espressione «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28) presuppone il vedere senza esserne una conseguenza inevitabile. Le apparizioni del Risorto non sono prove empiriche. Non basta vedere per credere, a sostenerlo è lo stesso Vangelo di Giovanni. Gesù moltiplicò i pani; poi, sapendo che lo volevano fare re, passò all’altra riva del lago (cf. Gv 6,14-21). Il giorno dopo la folla lo raggiunse a Cafarnao. Gesù, rivolto ai presenti, disse che lo stavano cercando non perché avevano visto «dei segni», ma perché avevano mangiato del pane. Vale a dire, gli astanti non avevano colto la moltiplicazione dei pani come un segno. Gli domandarono: «“Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo?” (...) Rispose loro Gesù (...): “Voi mi avete visto, eppure non credete”» (Gv 6,30-36). Il passare dal vedere al credere è un atto di fede che si compì a Gerusalemme ma non a Cafarnao, dove non furono accolte le parole di Gesù con le quali egli si presentava come pane disceso dal cielo (cf. Gv 6,41).

Nella «storia della fede» c’è un inizio collegato sempre ad Abramo. Paolo lo afferma in maniera esplicita, Giovanni è più indiretto. «Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia» (Rm 4,3; Gen 15,6). Dal canto suo il quarto Vangelo in qualche modo dichiara (anche se alla lettera non torna il verbo «credere») che Abramo credette non solo a Dio, ma ebbe già fede pure nel Figlio. Lo si afferma, ancora una volta, in contesto polemico: la non evidenza della fede è discriminante. «In verità, in verità vi dico, se uno osserva la mia parola non vedrà la morte in eterno» (Gv 8,51). Udito ciò i Giudei risposero dichiarando che Gesù si stava ponendo al di sopra di Abramo e dei profeti, l’uno e gli altri infatti morirono. I loro orecchi ascoltarono questa risposta: «“Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia”. Allora i Giudei gli dissero: “Non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abramo?”. Rispose loro Gesù: “In verità, in verità vi dico prima che Abramo fosse Io Sono” (Gv 8,58).

Qui Gesù afferma di se stesso il detto che Tommaso pronunciò di fronte al Risorto: «Mio Signore e mio Dio» (Gv 20,28). Abramo «esultò nella speranza», ma vide nella fede. Credette in Colui che gli era già compresente: «sono» è una forma verbale coniugata al presente. La beatitudine sta in un vedere interno al credere e non in una fede che si appoggia sul vedere. Ciò vale tanto per Abramo quanto per noi.

La mattina della risurrezione il discepolo amato corse al sepolcro, «vide e credette» (Gv 20,8). Ma cosa vide? La tomba vuota, i teli e il sudario, non il corpo e le piaghe del Risorto. Il suo credere è paragonabile più a quello di Abramo che a quello di Tommaso. Infine è pur vero quanto afferma la chiosa omiletica a cui si è accennato nelle prime righe: l’atto di credere senza vedere vale anche per noi.

 

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