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Attualità
Attualità, 2/2021, 15/01/2021, pag. 67

Diario del COVID / 2

La pandemia da lontano e da vicino

Luigi Accattoli

Eccomi al secondo tempo del mio «Diario del COVID»: il primo l’ho scritto da ricoverato al Reparto Pneumo COVID 2 dell’Ospedale San Giovanni di Roma, mentre questo secondo lo sistemo da casa, dove dal 14 dicembre mi trovo in cura domestica per la polmonite da SARS-COV 2 che era stata diagnosticata il 25 novembre. Ho recuperato il respiro e la voce, riesco a dormire quasi regolarmente la notte. Non ho più la sensazione di soffocare quando bevo acqua. Sono ancora tormentato dalla tosse, ma i medici dicono che è un buon segno: sta a dire che i polmoni reagiscono al blocco che avevano subito con l’invasione del virus. Sono in attesa di una chiamata dal Gemelli per il day hospital post-COVID che in tre sedute, forse a metà gennaio, dovrebbe monitorare la situazione e chiarire a che punto sia questa polmonite e se e quali danni io ne abbia riportati. Forse solo ora – dopo tanti dialoghi con gli altri ricoverati, con i dottori dell’ospedale e con quelli che mi seguono a casa – mi rendo conto del pericolo che ho corso.

Lo paragono a quanto sono venuto apprendendo nella mia ricerca di «storie di pandemia» e mi appare chiaro che debbo lo scampato pericolo – se davvero esso è scampato: sappiamo di ritorni inaspettati del virus in tanti casi di apparenti guarigioni – a una serie di circostanze fortunate che provo a elencare seguendo le indicazioni che mi sono venute da una specifica conversazione con uno dei dottori del San Giovanni.

Al Pronto soccorso
ci vado domani

L’allarme precoce. Ho scoperto d’essere positivo a ruota della stessa scoperta fatta da mia moglie, a sua volta spinta a fare il tampone molecolare da casi di positività nella scuola dove insegna.

L’avvio immediato della «cura preventiva». Eparina, cortisone, antibiotici mi sono stati prescritti essendo io ancora asintomatico: cosa che non sarebbe stata possibile senza quell’allarme precoce di cui sopra.

La diagnosi della polmonite in «fase iniziale». La TAC che l’ha segnalata non l’avrei fatta così presto se il primo sintomo, quello della febbre, l’avessi avvertito ignorando la mia condizione di positività: una metà delle storie da me raccolte parlano di un’incertezza prolungata nell’interpretazione del sintomo della febbre.

Il tempestivo ricovero. Al primo manifestarsi dell’affanno respiratorio, il medico che mi seguiva nella cura domestica mi ha portato immediatamente al Pronto soccorso. Erano le dieci di sera e io borbottavo: «Ci vado domani».

Hanno detto tutti i dottori da me interpellati che sarebbe bastato che la TAC o il ricovero fossero arrivati – poniamo – un giorno più tardi, perché io finissi in terapia intensiva, alla quale per fortuna non sono approdato e dalla quale tanti non fanno ritorno: 76.329 sono in Italia i morti per COVID 19 alla data in cui consegno questo testo.

Quel lamento
era la sua preghiera

Il 5 dicembre la mia situazione risulta in lieve miglioramento e abbassano da 40% a 35% il flusso di ossigeno che mi arriva dalla mascherina facciale e ciononostante il saturimetro mantiene il livello: significa che i polmoni stanno reagendo. La comunione arriva anche oggi e la riceviamo in due. Il terzo presente in quel momento nella camera, che aveva detto a me – interpellante – che lui non pregava, ha mormorato per tutto il tempo della presenza del prete: «Dio mio – Dio mio – Dio mio – Dio mio». Quel lamento era la sua preghiera.

Il 10 dicembre mi scalano ancora il flusso dell’ossigeno dal 35% di presenza per ogni litro al 31%. Il 12 mi annunciano che «se le assicurazioni strumentali che abbiamo oggi – in particolare quella dell’emogas – troveranno conferma domani e dopodomani, lei per noi sarà in grado di muoversi senza il supporto costante dell’ossigeno e potrà tornare alla cura a domicilio che già faceva prima del ricovero». La gentilezza, l’attenzione, la premura, la competenza del personale sono straordinarie. Medici, infermieri, operatori sanitari sono impagabili. Generalmente giovani e giovanissimi, elemento di fiducia per il domani.

Quando ero venuto qui al San Giovanni per una conferenza sull’accompagnamento del malato, l’11 febbraio scorso, Giornata del malato, avevo sostenuto che il popolo degli ospedali è il portatore oggi in Italia del nostro migliore umanesimo. Allora la pandemia pareva lontana. Amo ripetere quelle parole da un letto dell’ospedale che me le aveva suggerite.

Il 13 dicembre mi dicono: «Lasci la mascherina dell’ossigeno e si muova senza, poi la rimetta e poi di nuovo la tolga. Faccia la ginnastica respiratoria senza l’apporto esterno dell’ossigeno e controlli come e quanto le riesce». Oggi è la domenica Gaudete. L’équipe medica che ci fa visita sul mezzogiorno ci trova all’ascolto dell’Angelus del papa, subito da noi interrotto. Uscendo dalla stanza il responsabile della squadra dice: «Abbiamo visto che stavate pregando. Pregate anche per noi».

Narravo nel precedente diario che in 13 dei 16 giorni del mio ricovero ho potuto avere la comunione. Segnalo che in due casi, per il particolare momento di emergenza che si viveva nel reparto, la caposala ha detto al prete che non poteva entrare e mi sono trovato io a fare da ministro e avviatore delle preghiere per conto dei tre su quattro che nella mia camera volevamo comunicarci.

Umanità degli ospedali
e dei loro abitatori

Il 14 pomeriggio mi dimettono dall’ospedale con la prescrizione della cura a domicilio da condurre sotto la responsabilità del medico di base. Avevo già fatto 10 giorni di cura domestica a partire dal 19 novembre, data di scoperta della positività; ai quali sono seguiti 16 giorni di ospedale, che saranno ora completati da un paio di settimane – forse – di seconda fase domestica. In totale – se tutto andrà bene – una quarantina di giorni di duello ravvicinato con la bestia. Mi portano a casa in ambulanza perchè sono ancora positivo, ma dovrei riuscire a respirare e camminare senza apporto esterno di ossigeno. Una bombola è accanto al comodino, se tornasse a mancarmi il fiato. La notte che sto per imboccare sarà la prima che proverò ad attraversare senza indossare la maschera dell’ossigeno.

Il 15 dicembre mi intervistano da TV2000: «Ho visto sofferenze e generosità che a mio parere costituiscono segni dello Spirito per l’intera famiglia umana. L’assalto di questo virus tocca tutto il pianeta e anche i segni dell’umano che dicevo credo siano rintracciabili ovunque. Mi dedicherò con più decisione di prima a raccontare queste storie che considero fatti di Vangelo in pandemia».

Avevo trovato traccia dell’umanità amorevole del personale ospedaliero verso i malati, privi del contatto con le famiglie, in molte delle 60 storie che stavo raccontando nel blog quando mi è arrivata la polmonite. Ma anche di persona l’ho poi visto quell’affetto nella settimana più dura della mia ospedalizzazione, quando non riuscivo a parlare né a bere e vaneggiavo al flusso dell’ossigeno che m’investiva giorno e notte.

A metà di una di quelle notti, che passavo per intero senza dormire, ho suonato agli infermieri perché avevo freddo e ho chiesto una seconda coperta. Una ragazza giovanissima, di nome Stefania, della quale vedevo solo gli occhi e il nome tracciato sulla visiera di plastica, ha sistemato la coperta, mi ha messo le mani guantate sulle guance e mi ha dato un bacio dalla sua maschera scafandrata. Dono grande.

Dai fatti di Vangelo
alle storie di pandemia

Il 19 dicembre partecipo da remoto alla premiazione del concorso «Natale 2020» dell’UCSI di Verona, che mi ha attribuito il premio speciale della giuria «Giornalisti e società: la professione giornalistica al servizio dell’uomo», sostenuto dalla CET – Conferenza episcopale del Triveneto, attribuzione motivata con la raccolta di «storie di pandemia» che stavo conducendo nel mio blog quando mi sono ammalato. Nella conversazione seguita alla lettura della motivazione del premio, Stefano Filippi, presidente dell’UCSI di Verona, mi ha chiesto di chiarire le ragioni della mia attenzione alle storie di pandemia.

Ho risposto che fin dal marzo scorso avevo immaginato che avrei dovuto occuparmi delle storie di pandemia con lo stesso spirito con cui da 30 anni mi occupavo di storie di vita che chiamavo «Fatti di Vangelo», perché mi era sembrato evidente che in questa stagione straordinaria di bene e di male fosse necessario – anche da parte degli informatori ecclesiali – adoperarsi a cogliere manifestazioni di bene che non avevano precedenti, specifiche di una situazione drammatica e portatrici di un messaggio per l’umanità tribolata dei nostri giorni. Ho anche accennato al conforto in questa scelta che mi era venuto dall’enciclica Fratelli tutti, che al paragrafo 54 parla dei «semi di bene» che lo Spirito continua a seminare anche in questa stagione dove sembra prevalere il male.

Anche in pandemia
lo Spirito soffia dove vuole

Alla domanda sugli aspetti specifici di una storia di pandemia che la candidi a essere considerata un «fatto di Vangelo», mi sono azzardato a dire che ogni storia ha il suo seme particolare, portatore di bene e di speranza: si tratta di cercarlo e di metterlo in evidenza, di dargli dignità di notizia, anche quando esce dagli schemi ricevuti, o ne siano portatrici persone che mai ricondurrebbero le scelte compiute a motivazioni esplicitamente evangeliche, ma piuttosto a motivazioni di solidarietà sociale, o a precetti di altre fedi. Lo Spirito soffia dove vuole e c’è un insegnamento nel fatto che nel profondo le molteplici vocazioni umane s’incontrino. È anche cercando quell’insegnamento che accanto ai semi seminati dall’una conviene onorare quelli delle altre.

 

www.luigiaccattoli.it

Tipo "Io non mi vergogno del Vangelo"
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