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Attualità
Attualità, 6/2020, 15/03/2020, pag. 134

Coronavirus - Lettera da… La mia Africa

Giusy Baioni

Sono state già scritte tante riflessioni su questo capovolgimento di ruoli. Oggi che siamo noi ad avere bisogno, oggi che siamo noi ad avere paura, oggi che siamo noi ad avere l’istinto della fuga, dal Nord o da un ospedale che ti ha dato la diagnosi che non vuoi sentire, oggi che siamo noi i rigettati, le persone non gradite, i respinti alle frontiere… giudicheremo ancora con supponenza? 

 

E niente. Il file è aperto da più di una settimana, le informazioni le ho raccolte tutte, l’articolo è pronto per essere scritto. Ma la testa non c’è. Dovrei – come da accordi – raccontarvi cosa sta succedendo nel Camerun anglofono, dove la crisi non si placa, dove un’ennesima strage ha stavolta fatto scempio di donne e bambini, richiamando finalmente l’attenzione e la condanna internazionale. I vescovi, tutti i vescovi del mondo, hanno scritto al presidente Paul Biya perché si decida a intavolare dei colloqui di pace. Una cosa enorme: a memoria mia non ricordo che l’intero consesso dei vescovi abbia scritto a un presidente in carica.

È il mio lavoro, è il mio pane, è ciò che faccio e in cui credo da anni. Eppure stavolta no. Mi siedo al computer e l’unica cosa che riesco a fare è aprire le pagine dei quotidiani on-line. Ormai è come una droga, una dipendenza da terrore: consulto febbrilmente le notizie, i dati, leggo con avidità e sgomento ciò che scrivono i colleghi e che sono in prima linea a raccontare ciò che sta stravolgendo le nostre vite di lombardi.

«Mia moglie è terrorizzata – mi scrive uno di loro su Whatsapp – mi subissa di raccomandazioni ogni giorno»: lui è lì dall’inizio, sul limitare della zona rossa, dentro gli ospedali del lodigiano, poi a Bergamo e Brescia. Io, chiusa in casa coi miei figli, con l’ansia per i genitori in salute ma ultraottantenni e mio marito che ogni giorno continua a fare il suo lavoro fra richiedenti asilo e senzatetto, perché ora più che mai loro sono gli ultimi fra gli ultimi e non si può chiudere.

Guanti e mascherina, in uso solo da un po’. La curva dei contagi sale. E con lei l’ansia. La paura. Leggo i messaggi delle amiche infermiere e dottoresse, il loro orgoglio ma nel contempo la loro preoccupazione per i familiari, per i figli (potrò abbracciarli?). Anche solo uscire per andare a far la spesa mi pare una missione improba. La persona a fianco potrebbe esser un portatore sano? Gli oggetti che tocco potrebbero esser contaminati? Non temo per me, ma per i miei cari.

La prima notizia di un conoscente contagiato. Poi il primo morto. Non è certo che sia stato il COVID-19, stava bene, poi la febbre, poi… Nemmeno i funerali sono concessi: la beffa più crudele di questo virus maledetto. Come Ebola. Ma ora comincio a capire davvero che significa.

Da giorni mi osservo in questi comportamenti (che non sono propriamente irrazionali, ma rispondono a un istinto atavico che non conosciamo più, l’istinto di sopravvivenza). Mi osservo e rifletto. Ricordo i tanti articoli scritti in questi anni, raccontando l’epidemia di Ebola. Quello sì un morbo atroce, con un tasso di mortalità spaventoso. I medici in tuta da astronauta nel mezzo della foresta, i cadaveri contagiosi, sepolture senza cerimonie, comunità piagate dal terrore e dal sospetto.

Ricordo l’intervista a un medico di MSF che con mille attenzioni, calibrando bene ogni parola per evitare pregiudizi, mi spiegava perché Ebola fa così paura, perché alcuni in Congo evitavano i controlli, perché gli ospedali venivano assaltati, perché giravano voci incontrollate e idee sbagliate sul morbo, sulle sue origini, sulla cura…

Non ci sta succedendo lo stesso? I complottismi prima (il virus uscito da un laboratorio statunitense contro la Cina, no, da un laboratorio cinese per errore) le leggende metropolitane poi (tutti all’assalto della vitamina C). Per non parlare dei negazionisti, degli allarmisti… le scene della grande fuga da Milano. E a me sembra un déjà vu. In questo pandemonio passa nel silenzio la notizia che finalmente, dopo quasi due anni, da oltre una settimana non si registrano nuovi casi di Ebola nel Kivu e a breve potrebbe esser dichiarata la fine dell’epidemia. Ma il COVID-19 è dietro l’angolo. L’Africa, per ora, pare meno colpita. Speriamo. Lì le terapie intensive se le scordano…

E io qui chiusa in casa – per senso civico, ma anche per paura – ricevo e leggo commossa i messaggi da un’amica ruandese, un’amica di mio marito, per la verità, che ho incontrato di persona una sola volta, anni fa. Mi scrive ogni tanto per accertarsi che stiamo tutti bene. Ieri mi ha detto che lei e altre amiche, fra le quali un gruppetto di suore, avrebbero iniziato una novena di preghiera per noi.

Capite? Io, qui, nella mia bella casa, provvisoriamente con meno libertà del solito, ma per ora in piena salute e senza nessuna necessità vera, scopro la bellezza della solidarietà che varca confini e continenti. Stavolta siamo noi ad aver bisogno delle preghiere degli altri. E chi può ci invia anche medici e mascherine. Non solo la Cina. Il Sudafrica ben prima ce ne aveva inviate 400.000.

Sono state già scritte tante riflessioni su questo capovolgimento di ruoli. Mi auguro davvero che serva, che s’imprima nelle coscienze di noi italiani, popolo fino a poco tempo fa incattivito e rinchiuso fra mura di pregiudizi. Oggi che siamo noi ad avere bisogno, oggi che siamo noi ad avere paura, oggi che siamo noi ad avere l’istinto della fuga, dal Nord o da un ospedale che ti ha dato la diagnosi che non vuoi sentire, oggi che siamo noi i rigettati, le persone non gradite, i respinti alle frontiere… giudicheremo ancora con supponenza? Rimarremo nella nostra torre d’avorio o torneremo a essere il popolo accogliente e cordiale che siamo sempre stati?

Ritorno con la mente al Camerun anglofono, alle mamme e ai bambini uccisi e mi sento gretta e meschina nel non saper fare il mio lavoro, nel non saper dare voce all’ennesima tragedia dimenticata. Eppure imparo sulla mia pelle che quando un problema vero bussa alla tua porta, per quanto un virus come il COVID-19 sia in fondo poca cosa rispetto alla guerra in Siria, o alle stragi africane, o a Ebola, mi scopro piccola e incapace.

Chiedo scusa ai lettori. Ma soprattutto chiedo scusa ai e alle camerunesi. Noi occidentali, in fondo, siamo molto meno forti di voi africani. Meno resilienti. E questo l’ho sempre saputo.

 

Tipo Articolo
Tema Vita internazionale Pace - Guerra
Area AFRICA - MEDIO ORIENTE
Nazioni

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