A
Attualità
Attualità, 16/2019, 15/09/2019, pag. 469

Chiesa cattolica - Violenze sui minori: la prima linea

Intervista a Karlijn Demasure

Giulia Galeotti

Dialogo con la professoressa Karlijn Demasure, direttrice per 4 anni del Center for Child Protection (CCP) dell’Università gregoriana (cf. anche Regno-att. 2,2017,12). Questa teologa nata in Belgio – madre di 4 figli e nonna di 8 nipoti – ha fatto un lavoro incredibile: «Il mio ambito di ricerca è la teologia pratica: si inizia da un problema concreto, lo si studia e si tenta di trovare una soluzione. Può essere qualsiasi problema, io ho scelto gli abusi sessuali sui minori».

 

 

Insegnavo «in Belgio in una scuola secondaria quando una ragazza confidò a noi professori di essere vittima di abusi sessuali da parte del padre. Nessuno sapeva come comportarsi: dovevamo rivolgerci alla polizia? Eravamo obbligati a farlo? Dovevamo parlare con la madre? In Belgio esiste un servizio di sostegno psicologico che lavora principalmente con le scuole, ma nemmeno lo psichiatra che arrivò dopo la nostra segnalazione, aveva idea di come muoversi. Era assolutamente inaccettabile che nessuno sapesse cosa fare davanti a un problema talmente grave, così presi la mia decisione: sarei tornata a Lovanio per conseguire un dottorato sul tema».

Non s’accontenta di mettere a fuoco un problema, la professoressa Karlijn Demasure, lo prende per le corna. Anche per questo, nei 4 anni in cui ha diretto a Roma il Center for Child Protection (CCP) dell’Università gregoriana (cf. anche Regno-att. 2,2017,12), questa teologa nata in Belgio – madre di 4 figli e nonna di 8 nipoti – ha fatto un lavoro incredibile. «Il mio ambito di ricerca è la teologia pratica: si inizia da un problema concreto, lo si studia e si tenta di trovare una soluzione. Può essere qualsiasi problema, io ho scelto gli abusi sessuali sui minori».

Così dopo il baccalaureato in filosofia, la licenza in teologia, il matrimonio, l’arrivo dei figli (i primi due nacquero in Congo, nella giungla senza elettricità – «quanta incoscienza!» ammette ora –, dove Demasure era andata con il marito, teologo anche lui, a formare catechisti laici) e alcuni anni passati a casa a occuparsi dei piccoli, Demasure è tornata a Lovanio per studiare un tema che poche persone avrebbero il coraggio di scegliere.

«Dapprincipio mi occupai d’incesto perché il mio professore non voleva che indagassi sugli abusi sessuali del clero». Ma la belva da domare per Demasure era esattamente questa e una serie di telefonate ricevute hanno fatto il resto. «In quel periodo rilasciai un’intervista al giornale cattolico belga Tertio e parlai degli abusi nella Chiesa. Il giorno dopo la pubblicazione, ricevetti una telefonata dalla diocesi di Gent. Mi preoccupai… “Il vescovo Luysterman chiede se può venire a trovarlo: lui la pensa esattamente come lei”. Badi che eravamo alla fine degli anni Novanta, nessuno parlava di abusi in Belgio. Abbiamo lavorato tantissimo insieme, e siamo ancora amici: è un vescovo che non ha mai avuto paura di incontrare le vittime».

L’anno dopo la discussione del dottorato, Demasure pubblica un libro, in cui integra la sua tesi con gli abusi compiuti dal clero. «Sapevo già che in Belgio ci sarebbero stati grandi problemi, ma allora nessuno credeva che lo scandalo avrebbe riguardato l’Europa. Diciamo che ero la sola nel mio paese a pensare che sarebbe successo». Infatti di lì a poco – Demasure era intanto diventata docente di Teologia alla Saint Paul University di Ottawa – un vescovo belga convocò una conferenza stampa: «Ho abusato mio nipote», rivelò agli attoniti media accorsi (cf. Regno-doc. 11,2010,329).

Demasure riceve allora una telefonata da Peter Adriaenssens, per conto della Conferenza episcopale (cf. Regno-doc. 17,2010,571): essendo la sola in Belgio ad aver studiato il clero colpevole di abusi, le chiesero di rientrare. «Il rettore canadese mi diede l’ok e partii per alcuni mesi: in 6 settimane raccogliemmo più di 400 denunce. Fu durissimo». Qualche anno dopo, nel 2012, a Monaco nasceva il CCP, che nel 2014 si sarebbe trasferito a Roma. «Quando mi contattarono, accettai».

La fiducia arriva a piedi e se ne va a cavallo

– Prima d’entrare nel merito del vostro lavoro, ci definisca il termine «abuso».

«L’abuso avviene su tre livelli: potere, sessualità e fiducia. È sempre un abuso di potere, perché è sempre compiuto da qualcuno che ha potere su un altro, anche se si tratta semplicemente del potere di essere un adulto rispetto a un bambino.

In secondo luogo l’abuso ha a che fare con la sessualità: molte pubblicazioni e anche tanti nella Chiesa riconducono tutto l’abuso al potere perché si ha molta difficoltà a parlare di sesso. Ma l’abuso ha a che fare con il sesso.

Terzo punto, la violazione della fiducia: l’abuso è sempre compiuto da qualcuno di cui la vittima si fida (altrimenti può essere stupro). Sono più di 25 anni che accompagno le vittime e posso dire, senza ombra di dubbio, che la fiducia è la parte dell’abuso più difficile da sanare. C’è un detto belga che dice che la fiducia arriva a piedi e se ne va a cavallo.

Vi sono poi altre importanti precisazioni da fare: non dobbiamo confinare l’abuso solo al tatto, perché ad esempio si può obbligare un bimbo a spogliarsi nudo davanti alla telecamera, ed è un abuso. Ed è fondamentale non ritenere che queste forme siano meno gravi perché non c’è stata penetrazione. Ho conosciuto minori abusati con entrambe le modalità: la vittima soffre più nel secondo caso perché a livello emotivo i danni prodotti sono maggiori».

– Il CCP non è un centro di ascolto, ma lavora sulla prevenzione.

«Esatto. La formazione inizia dalla consapevolezza: quindi innanzitutto le persone devono accettare che il problema esiste nel loro paese. Secondo, bisogna ricordare che la prevenzione opera a livelli diversi. Perché non sia vulnerabile, ad esempio, il bambino deve sempre avere una persona che si prenda cura di lui – lasciarlo a lungo seduto fuori da scuola prima di andare a prenderlo, significa metterlo in una situazione sfavorevole. Sapere dove va, chi sono i suoi amici è fondamentale –.

Servono, inoltre, regole chiare e applicate, precisazione cruciale: sono infatti molte le scuole e le diocesi che hanno perfette linee guida che però restano nelle librerie. Al fondo di tutto, però, abbiamo bisogno di una cultura che non permetta gli abusi: papa Francesco lo ha detto molto chiaramente».

– Quali sono i progetti del CCP?

«Il principale è un programma di formazione on-line, chiamato E-Learning, disponibile in inglese, italiano, tedesco, francese e spagnolo (lo si sta traducendo anche in portoghese e abbiamo avviato contatti per il cinese) che fornisce moduli didattici adattabili ai diversi contesti locali, in modo da poter rispondere a specifici bisogni. Il programma ha già più di 4.000 studenti!

Sono per lo più cattolici, ma non solo. Il programma si compone di moduli cattolici, cristiani e neutri: così se in India non sceglieranno il modulo sul diritto canonico, tutti invece vorranno quello dedicato a rischi e fattori di protezione. Dal 2016 c’è poi in sede un corso intensivo (Diploma): dura 6 mesi con classi quotidiane dalla mattina alla sera.

E in ottobre è partito The Licenciate, un percorso formativo di due anni. Gli studenti vengono da ogni parte del mondo, sono più uomini che donne, più preti e suore che laici. La speranza è che chi segue il corso in sede, torni poi a casa e formi – avvalendosi dell’e-learning – altre persone.

Ci sono anche diversi docenti universitari che vengono a seguire il corso (ad esempio Hawlin, è docente nel seminario di Taiwan), responsabili delle congregazioni religiose (che debbono trattare i casi che scoppiano al loro interno) o persone che lavorano per le conferenze episcopali. Ovviamente più casi emergeranno nella Chiesa, più gente verrà: purtroppo spesso c’è bisogno dello scandalo perché una persona sia inviata al CCP. Operativamente per 4 anni ho lavorato con un’équipe, per lo più formata da donne: è stata una grande collaborazione!».

– La prevenzione sta dando frutti?

«Sicuramente il numero degli abusi diminuisce dove c’è la prevenzione. Ma i dati oggi – a mio avviso – sono troppo positivi: non si deve dimenticare la dinamica dell’abuso. Ci sono sempre barriere, innanzitutto psicologiche e culturali, nel denunciarlo. La sessualità è qualcosa legato all’intimità: ci vogliono anni perché la vittima parli. Quindi per avere dati affidabili sugli effetti della prevenzione ci vorrà tempo. Molti abusi sono venuti fuori tutti insieme grazie agli scandali: ma quelli che ne subiscono oggi? Parleranno oggi o tra 10 anni?».

Non poter più chiamare Dio «padre»

– Ci sono differenze negli abusi a seconda del paese?

«I tre livelli di abuso sono universali, varia il tipo. I dati non sono ancora completi, ma se – parlando di abusi del clero – guardiano al mondo occidentale essi coinvolgono per lo più i maschi, mentre in Africa per lo più le bambine e le ragazze».

– E tra abusi nella Chiesa e in famiglia?

«Ci sono sia differenze sia punti di contatto. Una differenza fondamentale è a livello spirituale: tuo padre non si può occupare della tua salvezza, ma il prete sì perché ha i sacramenti. Immagini quanto la cosa si faccia ancora più complicata nelle famiglie protestanti dove il padre è anche un ministro. D’altro canto un dato è certo, dimostrato da studi scientifici: più la famiglia è patriarcale, maggiore è la probabilità che si verifichino abusi.

Se la donna non ha voce, non è istruita o non ha un suo reddito, le probabilità che il padre (o uno zio) compia abusi sui figli (o nipoti) sono molto più alte. Gli abusi intra-familiari e nella Chiesa hanno tratti che li differenziano dagli abusi avvenuti negli scout o nello sport: innanzitutto perché in entrambi i casi viene usata la parola “padre” (sia per il genitore sia per il sacerdote). Altissimo è in entrambi il livello di fiducia coinvolto – normalmente ti fidi di tuo padre perché per molti anni è stato amorevole e lo stesso vale per il sacerdote –, per questo alcuni ricercatori sostengono che, in presenza della stessa fiducia e della stessa struttura di potere, le conseguenze dell’incesto e dell’abuso del clero siano simili.

Ad esempio, se si è stati abusati dal padre o da un sacerdote è difficilissimo poi chiamare Dio “padre”. E se è importante che la donna abbia più peso all’interno della famiglia per evitare l’abuso, anche la cultura della Chiesa deve cambiare: lasciando il sacerdote sul piedistallo, l’abuso è più facile. Finora è stato pubblicato poco sulla necessità di un mutamento a livello di cultura, ma è un passaggio decisivo.

Papa Francesco è stato estremamente chiaro riferendosi ai casi cileni: non è solo una questione individuale, ma è un problema di struttura. Dobbiamo guardare alla struttura, e dobbiamo cambiarla. Non si tratta solo di considerare la teologia del sacerdozio e di lavorare sulla formazione dei preti: sono convinta, ad esempio, che se ci fosse stata una buona teologia dell’infanzia gli abusi del clero sarebbero stati molto più difficili».

L’istituzione non era pronta

– Quale terminologia dobbiamo usare quando parliamo di abusi?

«È un punto fondamentale: le parole dicono tutto (sono specializzata in ermeneutica!). Ad esempio se si afferma che la violenza sessuale è una patologia, la persona è malata e deve finire in un’istituzione psichiatrica, mentre se si sostiene che è un crimine, la sua destinazione sarà il carcere. È fondamentale ricordare che nel tempo è cambiata la definizione non solo di colui che compie l’abuso, ma anche di chi lo subisce. L’importante mutamento storico che si è avuto in queste definizioni è frutto di una riflessione cruciale: ci si è accorti che le categorie che utilizziamo possono creare molta e ulteriore sofferenza.

Solo negli anni Settanta, ad esempio, si è smesso di parlare di “psicopatico sessuale” per indicare l’autore dell’abuso per utilizzare invece quello di “molestatore di bambini”, definizione che ha reso le vittime finalmente visibili. Il femminismo ha avuto un grande merito nel decostruire un impianto che parlava di minori “sedotti” invece che di minori “vittime di abusi”. La parola vittima ha il grande merito di porre l’accento sul fatto che chi subisce l’abuso non ha partecipato e non è colpevole.

Alcuni però la contestano perché, per rientrarvi, chi subisce l’abuso deve presentare dei caratteri di debolezza, di passività, ed è una definizione che punta tutto sul momento dell’abuso subito: molti non vogliono più usare questa parola una volta cresciuti. Ecco perché è emerso il termine survivor (sopravvissuto). È una parola che viene dagli Stati Uniti, usata dalle vittime stesse.

Con questo termine le persone vogliono sottolineare il fatto che non sono solo vittime, ma che hanno una loro identità; i sopravvissuti parlano per loro stessi, scrivono libri, testimoniano, raccontano, denunciano. Recentemente però è emersa una nuova parola: è thriver, viene dall’inglese to thrive, prosperare. La differenza con survivor è importante: per il survivor l’abuso è ancora la cosa più importante della vita (la loro storia è divisa tra il prima e il dopo l’abuso), mentre un thriver indica qualcuno che ha integrato nella sua storia l’abuso: è uno degli eventi che gli sono capitati nella vita, ma non la esaurisce. Il thriver sostiene di essere ben più che un sopravvissuto!».

– Un bilancio dei 4 anni al CCP?

«In virtù della mia nomina, non potrò mai dire che le donne non sono chiamate a ruoli di rilievo nella Chiesa cattolica. Mi è stata offerta una posizione importante, e quando me la offrirono mi dissi che se avessi rifiutato, il mio no sarebbe stato incoerente con quanto avevo fatto fino ad allora.

Sicuramente però non avrei mai immaginato che sarebbe stato così difficile: forse io ero pronta per il ruolo, ma l’istituzione no».

 

a cura di
Giulia Galeotti

Tipo Articolo
Tema Minori Ministeri - Vita religiosa
Area EUROPA
Nazioni