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Attualità
Attualità, 9/2015, 15/10/2015, pag. 589

Europa - Rifugiati: teologia della globalizzazione

Nel pieno di una trasformazione epocale, le Chiese cristiane e la salvezza universale

Paul Michael Zulehner

La morte di Aylan, il bambino di tre anni annegato sull’isola di Kos, ha scosso l’opinione pubblica europea. La madre e il fratellino un poco più grande sono morti insieme a lui, annegati. Abdullah Kurdi, il padre, ha perso in un colpo solo tutta la famiglia. Ha dovuto seppellire tutti e tre nella città natale di Kobane, completamente distrutta e diventata inabitabile. È il destino di una famiglia che ci mostra come la «marcia globale» già da tempo annunciata dagli studiosi sia arrivata in Europa a una velocità mozzafiato. 60 milioni di persone in tutto il mondo sono in fuga: dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Eritrea e da altri paesi africani. Fuggono dal terrore, dalla guerra, dalla povertà senza prospettive, dai disastri naturali. L’Europa di questi giorni è diventata un’altra, e nel giro di settimane. Una trasformazione drammatica si profila ad alta velocità, «troppo alta» secondo il ministro degli Interni tedesco Thomas de Maizière. In breve tempo questa trasformazione ha polarizzato l’affaticata Europa unita.

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Paul Michael Zulehner

Oggi il rischio per l’Europa è d’essere «unita da una cultura della paura» dell’immigrazione, aggravata dall’incertezza del futuro economico. È un sentimento profondo, che taglia trasversalmente molte categorie sociali, come mostrano i dati che qui presenta Michael Zulehner, traendoli da ricerche effettuate nell’area linguistica tedesca e cecoslovacca. Anche se l’appartenenza religiosa forte è sicuramente un fattore di riduzione delle paure e del «razzismo difensivo» – di cui il Club di Roma già parlava nel 1991 –, si fa strada l’idea che sia necessario un nuovo «Piano Marshall» che non solo ricostituisca il tessuto sociale europeo, ma elimini e allenti le tensioni e prosciughi le fonti delle paure. Vistose sono le differenze tra Est e Ovest e riguardano anche le comunità ecclesiali, rispetto alle quali è necessario domandarsi che fare. Più che gli appelli morali, saranno efficaci l’azione politica (controllo delle armi, corridoi umanitari, formazione per i rifugiati), la formazione alla lettura corretta dei media e dei social network, il dialogo interreligioso; e soprattutto l’incontro con «i volti e le storie» concrete dei rifugiati.