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Attualità
Attualità, 20/2014, 15/11/2014, pag. 729

America Latina - Cuba: la Chiesa si dà da fare

A colloquio con mons. D. Garcia Ibanez, presidente della Conferenza episcopale

G. Zucchi

Alla vigilia della presentazione del piano pastorale, che accompagnerà il cammino della Chiesa cubana fino al 2020, incontriamo mons. Dionisio García Ibañez, arcivescovo di Santiago de Cuba e presidente della Conferenza dei vescovi cattolici di Cuba.

Alla vigilia della presentazione del piano pastora le, che accompagnerà il cammino della Chiesa cubana fino al 2020, incontriamo mons. Dionisio García Ibañez, arcivescovo di Santiago de Cuba e presidente della Conferenza dei vescovi cattolici di Cuba.

– Mons. Dionisio García, la Chiesa cubana di oggi, nelle sue specificità, è l’esito degli sconvolgimenti del tempo della Rivoluzione. Che può dirci di quell’esperienza?

«La Chiesa cubana venne fortemente condizionata all’inizio degli anni Sessanta, ovvero quando la Rivoluzione iniziò da un lato con un’impostazione che potremmo definire atea e dall’altro con una serie di scontri sulla politica economica e sociale. Gli operatori pastorali al servizio della Chiesa furono drasticamente ridotti: da 700 sacerdoti degli anni 1959-60 si arrivò a 100, da 2.000 suore a 200. I numerosi centri di formazione cattolici, che avevano una certa influenza nel paese nel campo dell’istruzione, andarono perduti, così come le istituzioni di natura assistenziale. Anche la presenza negli ospedali venne meno. I vescovi di quel tempo erano stati educati a un certo modello di Chiesa e all’improvviso perdettero tutto ciò per cui si erano spesi: avevano lavorato per partire missionari in altri paesi, per avere scuole cattoliche, per essere presenti attraverso la stampa e i mezzi di comunicazione, per sostenere la diffusione dell’Azione cattolica e dei gruppi universitari cattolici… a un tratto, tutto andò perduto. Ciò che rimase fu la consapevolezza che il popolo di Dio era l’unico che potesse rendere Cristo presente nella società cubana. Così, inaspettatamente, si aprì un tempo molto ricco per la Chiesa, che prese coscienza di essere comunità. Si iniziò a scoprire la vita parrocchiale: a partire dal 1961-62 la parrocchia si rafforzò nella vita liturgica e nella catechesi. La caratteristica peculiare della Chiesa di Cuba divenne questa: essere costituita da comunità composte da un numero di persone ridotto, perché molta gente se n’era andata dal paese e altra non partecipava, ma da persone unite, impegnate, che si davano da fare in cose molto semplici, che è poi il compito di ogni comunità cristiana.

Erano anche gli anni in cui si avviava il Concilio e si respirava un’aria nuova nella Chiesa. Non avevamo pubblicazioni, ma iniziammo a produrre un foglio mensile dal titolo La voce del Concilio, distribuito in tutte le parrocchie, uno strumento per seguire il Vaticano II e sentirci uniti alla Chiesa universale. E il Concilio – in particolare la Lumen gentium – arrivò sostanzialmente a confermarci e a sospingerci nella via che avevamo intrapreso».

– Da quel punto di partenza avete iniziato a costruire…

«I punti fermi che ci eravamo posti come Chiesa erano la formazione, la liturgia, l’apostolato e la catechesi. A cui ne seguiva un altro: la chiamata. Un lavoro missionario aperto non era concesso, se non in maniera molto limitata, c’erano forti resistenze a che i cattolici assumessero incarichi decisionali nelle aziende e nel governo. Noi lo consideravamo come qualcosa da subire, nella consapevolezza che dovevamo comunque essere presenti nella società cubana. Col tempo per la Chiesa iniziarono ad aprirsi maggiori possibilità. Questo fece sì che, a partire dalla Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano di Puebla, si avviasse il processo di Riflessione ecclesiale cubana (REC). A quel tempo, nel contesto della Chiesa latinoamericana Cuba appariva come una mosca bianca. Di ritorno da Puebla, mons. Fernando Azcárate, vescovo ausiliare de L’Avana, ci disse: “La Chiesa cubana dovrebbe fare la sua piccola Puebla”.

Orante, incarnata, missionaria

E così fu: si lavorò molto bene, comunità per comunità, con una consultazione che coinvolse quasi tutti. Le domande erano del tipo: come ritenete che debba essere un sacerdote, un vescovo, come pensate la catechesi, quali sono le cose a cui la Chiesa dovrebbe dare maggiore importanza? Il lavoro durò circa cinque anni, ogni diocesi portò il proprio risultato presentando proposte, assieme alle linee che avevano guidato il cammino pastorale. La REC sfociò nell’Encuentro nacional eclesial cubano (ENEC: si svolse a L’Avana dal 17 al 23 febbraio 1986 e vi presero parte i vescovi cubani con una rappresentanza di sacerdoti, religiosi e laici di ogni diocesi; ndr), un avvenimento ecclesiale che ci segnò profondamente. Dopo 20 anni che eravamo rimasti chiusi nelle nostre comunità, si poteva uscire allo scoperto. L’ENEC propose una Chiesa orante: per esperienza vissuta sapevamo che non potevamo confidare in altro se non in Dio stesso e la preghiera ci teneva saldi; una Chiesa incarnata: con tutte le difficoltà che stavamo vivendo, dovevamo dare testimonianza nel nostro paese; e una Chiesa missionaria: un aspetto sorprendente, considerate le molte limitazioni. L’ENEC conteneva proposte che si sono realizzate cinque, sette e anche dieci anni dopo. Ma per la Chiesa fu una nuova Pentecoste.

Di lì partì il primo piano pastorale. Quasi sempre i piani pastorali iniziano con consultazioni che coinvolgono tutti i fedeli o con indagini più circoscritte, per definire le linee da percorrere. Ci sono stati tre piani pastorali e ora stiamo approdando al quarto. Ciascuno di essi ha conservato gli obiettivi di una Chiesa orante, incarnata e missionaria, poi sono venuti ad aggiungersi i temi della formazione, della comunità cristiana e una ulteriore sottolineatura della missione. Formazione, perché c’è molta gente nuova: i cattolici anziani formatisi nei collegi sono deceduti o hanno lasciato il paese e la Chiesa cubana si è sempre molto impegnata nel formare i suoi fedeli in tutti gli aspetti, soprattutto quello dottrinale e nella dottrina sociale della Chiesa. Comunità, perché essa è il centro della vita cristiana. Ora hanno iniziato ad arrivare alcuni movimenti ma vogliamo che si integrino nella vita della parrocchia: l’unità nella Chiesa è una grazia, un dono di Dio, per cui lavoriamo anche noi. E poi la missione, essenziale nella vita della Chiesa: adesso abbiamo la possibilità di andare di casa in casa, di suonare alla porta, cosa che una volta era impensabile, possiamo invitare le persone a iniziative e corsi, organizzare momenti significativi, trasmettere un messaggio alla radio o alla televisione».

– Qual è il centro della comunità cristiana?

«Una comunità cristiana non può avere il parroco o il prete al centro: il centro è l’eucaristia, il centro è la parola di Dio. Il parroco esiste per incoraggiare i fedeli, convocarli, illuminarli con la Parola, ma è la comunità che deve prendere vita. Esemplare nel 2012 è stata l’esperienza della celebrazione dei 400 anni del ritrovamento dell’immagine della Vergine della Carità, con tre anni preparatori in cui uno dei punti chiave è stato proprio il rafforzamento della comunità. Per un anno e mezzo l’immagine della «Virgen Mambisa» ha poi attraversato Cuba. Ci siamo resi conto che puntando sulla comunità rafforzata, coerente, che si dà da fare, i frutti pastorali sono stati grandi».

L’espatrio e l’embargo

– A quasi un anno di distanza quali sono le novità pastorali che ha portato la lettera pastorale La speranza non delude (cf. Regno-doc. 1,2014,34-39)?

«Come prima cosa illuminare la coscienza dei fedeli. Non solo dei fedeli, ma di quelli con cui condividiamo una maternità nella patria, in Cuba, perché sia visibile come noi viviamo questa maternità alla luce del Vangelo. La lettera in sé ha un valore formativo illuminante, ha il valore di interpellare le coscienze. È una lettera affidata alla coscienza delle persone, affinché riflettano. Come si può vedere vengono affrontati molti aspetti. Io credo che il ruolo di noi vescovi sia formare, far riflettere il popolo cubano e soprattutto i cattolici sulla vita della patria e sull’impegno per rendere Cristo presente in quel contesto».

– Vi si sottolinea ripetutamente l’importanza del dialogo. In quali contesti ce n’è particolarmente bisogno?

«Credo che a Cuba il dialogo debba attuarsi soprattutto in seno alle comunità. La vita della comunità si realizza attraverso la partecipazione e il dialogo. In ogni ambiente ce n’è bisogno. Quando in una società, in una comunità ci sono dei blocchi serrati che non vogliono ascoltarsi reciprocamente, anzitutto c’è un conflitto e in secondo luogo è difficile che ci sia progresso. Pertanto noi lavoriamo in modo che tutti gli aspetti della vita della persona umana abbiano la possibilità di dialogare. Stiamo parlando qui dell’aspetto educativo, economico, politico, delle relazioni internazionali. Crediamo che la vita nelle famiglie, le relazioni tra le persone e tra i paesi – come dice papa Francesco – debbano trovare vie di dialogo, di comunicazione. L’invito a partecipare è per tutti: per i fedeli, per i cittadini, per lo stato».

– La lettera parla dell’espatrio come di una «tentazione», soprattutto per i giovani…

«Negli ultimi 10-15 anni non è cambiata solo la Chiesa, ma anche la società e questa globalizzazione delle idee è una cosa che ci sovrasta. Le opportunità di comunicazione sono più accessibili in tutto il mondo. Anche i cubani, in un modo o nell’altro, con più o meno limitazioni, lo sperimentano, nella ricerca di un futuro migliore che molti vogliono da subito, senza aspettare ancora. Abbiamo bisogno non solo di desiderare il futuro ma anche di vivere il presente, che è ora un po’ migliorato rispetto a prima. Ma molti giovani cercano di uscire dal paese, perché non ritengono i cambiamenti sufficientemente rapidi o semplicemente perché così hanno deciso. Purtroppo la società cubana ha conosciuto un tasso di emigrazione molto elevato. Le famiglie disperse in più luoghi cercano di ricongiungersi per un futuro migliore. Queste sono dinamiche che, per ragioni diverse, tutto il mondo sta vivendo. Non voglio fare confronti, ma ci sono giovani europei che con la crisi se ne sono venuti in America Latina. A cercare che cosa? Un futuro migliore. Anche i cubani cercano un futuro migliore, soprattutto se vedono che ciò che stanno facendo non li conduce verso questa meta. Il compito della gioventù è cercare. I giovani hanno il futuro davanti a sé: per loro non ci sono frontiere».

– Quanto l’embargo limita le possibilità di sviluppo del paese?

«L’embargo è stato posto in un determinato momento e si è prolungato nel tempo. Condiziona pesantemente la nostra politica economica, impedisce che tutte le potenzialità del popolo cubano vengano espresse e che rapporti più amichevoli coi paesi vicini possano consentire ai cubani di dire: “Io resto nel mio paese”. Magari si potesse ottenerne l’abolizione. Questa separazione che ci colpisce si può via via superare attraverso l’incontro, la comunicazione, la condivisione. Ancora si potrebbe usare la parola dialogo. Inoltre oggi ci sono molte più relazioni tra il popolo cubano e il popolo nordamericano rispetto a un tempo, a motivo del folto numero di cubani che vive negli USA. Le relazioni famigliari sono molto più forti di qualsiasi altro vincolo. I rapporti economici possono passare, quelli politici pure, ma le relazioni famigliari, quelle degli affetti non passano».

Se il papa è Francesco

– Che senso ha parlare dell’opzione preferenziale per i poveri in un paese come Cuba?

«A Cuba ci sono dei poveri e ce ne sono sempre stati. Come in tutti i paesi si tratta di una povertà relativa a diverse fasce sociali. Ad esempio nelle famiglie in cui vivono degli anziani a volte il salario non è sufficiente, dove ci sono dei pensionati è difficile che arrivi il denaro. Tali famiglie sono nel bisogno e in molti casi giungono alla povertà. Le ragazze madri costituiscono un’altra categoria bisognosa. A Cuba la famiglia ha sofferto molto, non è stata sostenuta da politiche adeguate. Ci sono ragazzi che vengono allevati dalle nonne, persone che hanno in casa malati cronici, allettati, ci sono persone sole, altri che giungono dalla campagna alla città, dove vivono in situazioni precarie. Si tratta di settori molto vulnerabili. Il salario spesso non consente di coprire adeguatamente le necessità materiali e qualsiasi evento straordinario o calamità – come ad esempio un ciclone – fa sì che la gente soffra molto pensando a come potrà mai recuperare ciò che ha perduto. Inizialmente il lavoro della Chiesa in questo campo non era ben visto, ma a poco a poco lo stato si è reso conto che tutto ciò fa parte della missione ecclesiale. Di fatto la Caritas e le parrocchie – la Caritas a Cuba è in tutte le parrocchie e comunità – dedica molto lavoro ai poveri e ai bisognosi».

– Che cosa vuol dire per la Chiesa cubana avere un papa latinoamericano?

«Se fosse stato dello Sri Lanka lo avremmo amato allo stesso modo, ma non c’è dubbio che papa Francesco abbia il nostro stile, è portatore di un’esperienza religiosa e pastorale che noi conosciamo. È un uomo di Aparecida e per noi Aparecida è come un riassunto della vita della Chiesa in America Latina e quindi ci sentiamo molto vicini sia a tutto quello che fa, sia a come lo fa».

– A proposito della Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano di Aparecida, qual è stata la sua influenza e in che modo può svolgere, anche attraverso papa Francesco, un ruolo più grande per l’intera Chiesa?

«L’influenza di Aparecida è fondamentale. Santo Domingo aveva affermato che la parrocchia era “comunità di comunità”. Aparecida ha raccolto l’esperienza missionaria, apostolica, di vita cristiana della Chiesa popolo di Dio in America Latina, soprattutto della Chiesa più vicina ai bisognosi. È una Chiesa che vive in una società cristiana ma che non ha i vincoli di una Chiesa europea. Così la Chiesa latinoamericana è più libera, più aperta a creare nuove strutture e nuove possibilità. Nella Chiesa latinoamericana, ad esempio, è fortemente presente la religiosità popolare, un particolare modo di accostarsi a Dio, di amarlo, di essere in relazione con lui, e Aparecida su questo tema ha un capitolo magistrale. Ci si rende conto che papa Francesco vive questa mistica di Aparecida, si muove in tale contesto.

Credo che Aparecida serva a noi in America Latina per guidare la nostra azione pastorale, ma dovrebbe essere letta anche dalle Chiese di altri continenti. Mi pare possa offrire una prospettiva diversa sul come mettere a fuoco questo nuovo mondo completamente plurale, che spesso fatica a riconoscere Dio nelle cose, nella vita, nelle azioni, negli eventi, nelle circostanze.

I molti martiri

La Chiesa latinoamericana non ha dietro di sé la storia che ha la Chiesa europea. Pertanto la nostra risposta deve essere completamente diversa. Cuba ad esempio è stata l’ultima colonia spagnola latinoamericana, poi è subito passata agli Stati Uniti. La costituzione cubana è sempre stata laica con una rigorosa separazione tra la Chiesa e lo stato. Si tratta di una condizione in cui ci sentiamo molto a nostro agio. E anche ora, per fortuna, a Cuba c’è separazione e rispetto: non si tratta di laicismo ma di un riconoscimento del ruolo della Chiesa e dei credenti nella società.

Le risposte non possono essere uguali, ma non c’è dubbio che il peso storico della Chiesa nei paesi europei in qualche misura condiziona. Non si tratta di un giudizio perché ogni Chiesa è santa e insieme peccatrice, la nostra per prima. Non voglio giudicare la Chiesa. Però vedo che questa “cristianità” va decadendo. Occorre lavorare molto su questa problematica e sul come superarla, conservando ciò che è buono, ma sapendo che occorre lasciare delle cose. È difficile accettare di perdere posizioni, ma noi che le abbiamo perse, stiamo recuperando il centuplo…».

– Per la Chiesa non è questo il tempo riconoscere i martiri latinoamericani tutti, compreso mons. Romero?

«I criteri che soggiacciono all’avanzamento delle cause di canonizzazione sono di difficile interpretazione per noi che viviamo lontano da Roma. Noi cubani veneriamo Felix Varela, un uomo di Dio, il cui processo di beatificazione è stato avviato nel 1985. Era un sacerdote molto amato, un uomo fedele, che si mise in politica non per proprio volere, ma perché il suo vescovo gli chiese di far parte delle cortes spagnole. Condannato a morte dalle stesse cortes, fuggì negli Stati Uniti. Noi cattolici cubani lo consideriamo santo, ma non è neppure beato, poiché è stato dichiarato venerabile solo nel 2012. Veneriamo anche fra José Olallo Valdés, religioso dell’Ordine ospedaliero di san Giovanni di Dio, la cui opera caritativa fu molto significativa e il cui processo di beatificazione è stato introdotto nel 1990. Visse al tempo in cui Cuba era sotto il dominio spagnolo e quando l’Ordine richiamò i frati nella madrepatria, egli decise di restare a Camagüey, dove si dedicò ai poveri e al servizio di tutti. Dichiarato venerabile nel 2006, è stato beatificato nel 2008, mentre Felix Varela, come dicevo, non lo è ancora.

La Chiesa latinoamericana ha dato molti, moltissimi martiri. Racconterò un episodio: ho partecipato alla Conferenza di Santo Domingo non come vescovo, ancora non lo ero, ma come delegato dei sacerdoti di Cuba. C’era un delegato per ogni paese e noi cubani credevamo di essere la Chiesa che soffriva di più. Al momento delle presentazioni, il delegato dell’Honduras iniziò a raccontare di un sacerdote e di alcuni catechisti che erano stati uccisi, poi il delegato di un altro paese riferì un evento analogo… La situazione è questa, pur con le specificità di ogni Chiesa. E se i vari cristiani assassinati siano o non siano santi martiri, lo stabilirà il tempo. Noi desideriamo che Felix Varela diventi beato, chi è impegnato nella causa lavora per questo obiettivo, ma la cosa non costituisce un problema. La Chiesa è piena di persone che hanno dato la propria vita. Mons. Romero ha versato il proprio sangue, e pubblicamente, nella carica che rivestiva. Tutti ne El Salvador lo chiamano già «san Romero de America», che il papa lo proclami o non lo proclami santo. Ma prima e dopo di lui ce ne sono molti altri».

 

a cura di

Gabriella Zucchi

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